16 Giugno 2020

I contributi a fondo perduto nel d.l. “rilancio”: brevi note in prospettiva penalistica

ANTONIO BONFIGLIOLI

Immagine dell'articolo: <span>I contributi a fondo perduto nel d.l. “rilancio”: brevi note in prospettiva penalistica</span>

Abstract

                                 Aggiornato al 12.06.2020

I rischi connessi alle dichiarazioni mendaci per usufruire dei contributi a fondo perduto previsti dal d.l. 34/2020

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Una premessa, che è poi un auspicio (di analisi e di metodo)…

Aperto l’ombrello per ripararsi dal tempestoso (ma non sempre tempestivo…) diluvio di norme che continua a contrassegnare questo estenuante periodo pandemico, l’operatore del diritto ha il dovere – a mio avviso non solo in un’ottica strettamente deontologica, ma anche di vera e propria etica civica - di rappresentare al meglio ai suoi interlocutori (clienti, conoscenti, familiari, amici) la sostanza che innerva quelle stesse disposizioni normative. Per farlo in modo corretto, tuttavia, egli non mai può perdere di vista le coordinate basilari della stessa responsabilità giuridica (nelle sue quattro articolazioni: penale, amministrativa, civile e disciplinare).

Il problema non è solo quantitativoi precetti sin qui varati dall’inizio dell’emergenza dai diversi attori istituzionali dotati di poteri di normazione, diretta o indiretta, hanno raggiunto, credo, l’ordine di alcune migliaia, irradiando i propri effetti a materie assai eterogenee tra loro –, bensì, soprattutto, qualitativo, atteso che anche “fior di interpreti”, nonché autorevoli fonti massmediatiche[1], stanno “leggendo” il contenuto di numerosi tasselli del mosaico normativo anti-Coronavirus in modo clamorosamente superficiale e insipiente.

Mala tempora, si potrebbe dire, anche in ambito giuridico: se il tessuto connettivo di una regolamentazione schizofrenica in epoca emergenziale è, di per sé, “fragile”, gli effetti di una lettura distorta di quella stessa debolezza possono risultare devastanti rispetto allo scopo di orientamento delle condotte dei consociati. Un tratto finalistico, questo, che - vale la pena ricordarlo - (dovrebbe) contrassegna(re) primariamente la mission del legislatore, specie quello penale.

Ciò che più colpisce, di conseguenza, è rilevare quanto tempo venga impiegato da ciascuno di noi, “operatori del diritto”, al fine di risolvere singole, intricate questioni, per poi giungere a constatare il tratteggio di soluzioni (certo plausibili, e tuttavia) a volte precarie, ancor più frequentemente provvisorie o comunque destinate a precoce obsolescenza (le fonti di quest’epoca pandemica, oltre che farraginose e complesse, semplicemente…cambiano a ritmo forsennato! E non si vede, all’orizzonte, alcuna attenuazione del fenomeno, anzi…).   

Ciò detto – rivendicando peraltro con orgoglio lo spessore di siffatti contributi professionali da noi prodotti - non possiamo certo stupirci se i destinatari (non giuristi) di quelle previsioni astratte non riescono a decodificarle, a tradurle in comportamenti concretamente razionali. Sta proprio a noi cercare di farlo, come sempre con cura e passione, per soddisfare le esigenze, in questo periodo per definizione “immediate”, dei clienti e, in generale, dei nostri interlocutori.

 

Dal “diritto frammentario” anti-Covid19 ai “diritti coordinati” di rango supremo

Il punto è, quindi, un altro.

Potremmo sentirci a disagio se non riuscissimo, dopo aver fornito il nostro contributo alla soluzione del “contingente”, ad alzare la testa dall’ennesima “virgola protocollare” per ragionare almeno un po’ sul mutamento forte di gangli vitali del (nostro) sistema giuridico (multilevel, non dimentichiamolo!), sulle eccezioni a principi radicati, sul “diritto che verrà”…

Forse, per rasserenarci un pochino, dovremmo fare appello alla “certezza” che in uno Stato democratico di diritto i principi ci sono e sapranno resistere anche alle intuibili torsioni post-emergenziali di qualche Procuratore “disinvolto” nel maneggiare l’azione penale, che il produttore delle regole preventive (in questo caso anti-contagio) non potrà identificarsi totalmente con il destinatario dei doveri preventivi (datore di lavoro), che il paradigma causale (omissivo) precede (e non segue) l’ascrizione di colpa, e che la colpa stessa mantiene una dimensione soggettiva, modulata sull’autore “in carne ed ossa”…

Temo tuttavia che, da questa angolatura, non vi sarà grande “sensibilità” per la responsabilità individuale, e che l’esigenza di offrire ristoro alle vittime del Covid 19 porterà a puntare il mirino penale verso le strutture collettive, le organizzazioni complesse (ospedali, case di cura, RSA e, chiaramente, imprese), perché è lì che si possono trovare le risorse cui attingere per soddisfare quell’esigenza (le prime indagini confermano questa direzione). D’altronde, la de-individualizzazione degli agenti chiamati in causa – fenomeno tipico di una società in crisi - proprio per far scattare responsabilità “duetreunistiche”, passerà per una preventiva ascrizione sommaria di responsabilità individuali datoriali (o, comunque, apicali).   

Questioni di un certo rilievo, che dunque meriterebbero adeguati approfondimenti, anche aprendo la finestra della stanza in cui siamo asserragliati - tra miriadi di norme di ogni genere e specie – per fare entrare l’aria salubre di altre discipline (quelle extragiuridiche o metagiuridiche, oh yes!).

Ma qui l’orizzonte si amplia a dismisura.

Passo quindi ad un argomento più specifico, senz’altro meno nobile anche se rilevante, vale a dire quello dei contributi a fondo perduto (art. 25 d.l. 34/2020).

 

Pecunia non olet: la tentazione di attingere ai contributi a fondo perduto e i rischi penali connessi.

Procedo per punti:

  • L’art. 25 del d.l. 34/2020 prevede l’irrogazione di contributi statali a fondo perduto a favore di “esercenti attività d’impresa, e di lavoro autonomo e di reddito agrario, titolari di partita IVA, i quali risultino “colpiti dall’emergenza epidemiologica Covid-19”;
  • il contributo è erogato solamente a seguito di istanza, inoltrata esclusivamente per via telematica, all’Agenzia delle Entrate;
  • i soggetti interessati, dunque, correderanno l’istanza con autodichiarazioni, tra le quali grande rilievo è conferito all’”autocertificazione di regolarità antimafia (tradotto: dichiarazione circa l’insussistenza di misure di prevenzione, né di procedimenti di prevenzione in corso);
  • il controllo successivo dell’Agenzia delle Entrate, ove disveli la sussistenza di cause ostative, porterà al recupero del contributo erogato e il responsabile dell’autocertificazione mendace sarà punibile con la reclusione da due a sei anni.

Circa quest’ultimo profilo, emerge la volontà di costruire un nuovo e autonomo delitto di falso, che vada a sostituire quello solitamente applicato dalla giurisprudenza di Cassazione in casi del genere, connotato da una pena assai lieve (ossia il delitto di cui all’art. 495 c.p.). Chiara l’intenzione di presidiare in modo più intenso prevedibili mendaci documentali in punto di antimafia, ma come si fa a scrivere una fattispecie in modo così becero? Segnalo che viene contemplata la confisca quale sanzione accessoria del delitto in questione, laddove avvenga l’erogazione del contributo (perché questa superfetazione? La confisca è già prevista, ex art. 322ter c.p., per il delitto di cui all’art. 316ter c.p…. Forse per poterla disporre anche nell’ipotesi in cui il contributo percepito, inferiore ai 3.996,60, sia idoneo ad integrare gli estremi del mero illecito amministrativo).

  • Il comma 14 dello stesso art. 25 ha cura di precisare che si applicherà, in caso di percezione di contributi non spettanti, l’art. 316ter c.p. (a patto che la somma concretamente erogata dallo Stato superi i 3.996,60 euro). Mi pare specificazione del tutto superflua, posto che, a fronte di condotte decettive perpetrate tramite autodichiarazione - laddove vengano disposti controlli sostanziali “a campione” solamente dopo l’erogazione delle risorse - non vi è spazio per la truffa (aggravata), di cui all’art. 640bis c.p.[2]

Credo che, nonostante il legislatore intenda promuovere una forzatura e postulare un concorso materiale tra i delitti di falso (495 c.p., 483 c.p.) e di indebita percezione (316ter c.p.), vi sia giurisprudenza granitica che da anni si è assestata in direzione opposta, argomentando nel senso dell’assorbimento del primo delitto tra le maglie del secondo, in quanto l’uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi rappresentano tratti tipici dell’illecita captazione di risorse pubbliche.

A diversa conclusione potrebbe giungersi nel caso in cui l’accesso al beneficio economico pubblico riguardasse un credito d’imposta (e il richiedente si avvalesse, ad esempio, di fatture false), frutto illecito di un reato tributario commesso “a monte”.

Ad ogni buon conto, la fattispecie delittuosa scandita dall’art. 316ter c.p. rientra nel novero dei “reati presupposto” per la responsabilità amministrativa da reato degli enti, ex art. 24, d.lgs. 231/2001.

Vedremo gli sviluppi, ermeneutici e non solo. Mi auguro vivamente che in sede di conversione si possa aggiustare una formulazione così precaria.

 

[1] Esprimo sincera preoccupazione per il livello scadente della qualità dell’informazione del nostro Paese (figlio dell’emergenza anch’esso? Ma allora i mass media a cosa servono?). Lo rilevo da convinto lettore di carta stampata, nostalgico dei bei quotidiani che furono, refrattario all’informazione “a gettone”. Il riferimento a titoloni e “articolesse” - nelle quali si postulava una responsabilità penale presunta del datore di lavoro quale conseguenza automatica della copertura INAIL - pubblicati di recente su autorevoli quotidiani nazionali non è casuale. Si è difatti generato un panico collettivo tra le imprese, già gravate da mille problemi ed è dovuta intervenire l’INAIL per chiarire concetti lapalissiani. E ora, a conversione avvenuta del d.l. “liquidità”, si plaude alla previsione di uno “scudo” per le imprese, laddove l’art. 29bis si limita a sottolineare, con formulazione “generalista” e, dunque, tamquam non esset, che i datori di lavoro adempiono all’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, ex art. 2087 c.c., mediante l’osservanza delle prescrizioni contenute del Protocollo condiviso del 24 aprile u.s. (nonché degli altri Protocolli e accordi di settore stipulati).

[2] Mancherebbe un elemento fondante la tipicità dell’art. 640bis c.p., ossia l’”induzione in errore della vittima”. In effetti, l’Agenzia delle Entrate, tramite i suoi funzionari, si limiterà, per favorire al massimo la tanto agognata tempestività dell’erogazione, ad un mero controllo “formale” dei documenti a corredo dell’istanza.

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