26 Febbraio 2019

Equo compenso: un rischio sottovalutato

ALESSANDRO RENNA

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Abstract

La legge che ha introdotto in Italia il c.d. “equo compenso” a favore (tra gli altri) degli avvocati non è recentissima, risalendo ormai al dicembre 2017 (l. 172 del 4.12.2017, come modificata dalla l. 205 del 27.12.2017). In molti, tuttavia, non sembrano ancora prestare la dovuta attenzione a una normativa che può avere impatti molto significativi sulle maggiori imprese.

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Come noto la normativa in parola prevede che, nei rapporti regolati da convenzioni predisposte unilateralmente dall’impresa cliente -quando essa è una banca, una compagnia assicurativa o un’impresa non PMI- all’avvocato deve essere garantito un “equo compenso”, inteso come un compenso “proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della Giustizia …”.

I requisiti dell’“equità” sono quindi due, e devono essere rispettati congiuntamente: da un lato la “proporzionalità” e dall’altra la “conformità ai parametri ministeriali” contenuti nel DM 55/2014, come modificato dal DM 37/2018.

Quanto alla sanzione, se viene pattuito (leggi imposto) un compenso non equo, il giudice, su domanda dell’avvocato, “dichiara la nullità della clausola e determina il compenso dell'avvocato tenendo conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia …” (art. 13 bis, comma 10 della l. 247 del 31.12.2012).

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È bene anzitutto precisare che la normativa in questione costituisce una deroga al principio generale stabilito dalla legge di disciplina dell’ordinamento della professione forense, secondo cui “la determinazione dei compensi è libera” (art. 13, comma 3 della l. 247 del 31.12.2012).

Questa deroga si giustifica -come ben spiegato nella relazione illustrativa alla legge- per la presenza di una parte forte (l’impresa) che sarebbe in grado di “imporre” un compenso iniquo alla parte debole (l’avvocato), realizzando un accordo nel quale il consenso sarebbe sostanzialmente viziato da una disparità di potere contrattuale genetica. È appunto il caso, storicamente tipico, delle “convenzioni” predisposte unilateralmente dal cliente forte e “imposte” agli avvocati secondo una formula che potremmo definire del “prendere o lasciare”. A queste fattispecie -e soltanto a queste- la normativa in materia di equo compenso trova applicazione in deroga al principio generale dell’autonomia privata, imponendo al cliente di riconoscere all’avvocato un compenso equo secondo la sopra riportata definizione. 

La deroga in parola riguarda invero una casistica molto ampia, dal momento che quasi tutti gli operatori più strutturati (banche, compagnie assicurative, grandi gruppi industriali) sono soliti regolare con convenzioni predisposte unilateralmente i loro rapporti con gli avvocati in materie quali il contenzioso ordinario o il recupero crediti (ne abbiamo parlato in precedenti articoli, sempre in questa sezione dei 4cLegal Talks: Equo compenso vs equo preventivo; Equo compenso_primi contenziosi).

In questi casi, se il compenso stabilito in convenzione non è “equo” secondo la definizione normativa, il rischio è che -quando si dovesse rompere il rapporto fiduciario tra cliente e avvocato- l’avvocato agisca in giudizio per chiedere il pagamento della differenza tra il compenso pattuito e il compenso liquidato dal giudice in conformità al regolamento previsto dal DM 55/2014.

Se un operatore soggetto alla normativa in materia di equo compenso dovesse avere in essere una convenzione -predisposta unilateralmente- che prevede compensi inferiori ai parametri ministeriali, potrebbe dover appostare in bilancio, sussistendone i presupposti, un fondo per rischi e oneri.

Nel determinare l’ammontare del fondo, dovrebbe considerare non già i valori minimi dei parametri ministeriali, ma quelli medi, dal momento che -secondo l’art. 4 del DM 55/2014 il giudice deve tener conto, nella sua liquidazione, appunto dei “valori medi” previsti dalle tabelle allegate al decreto (a dire il vero, il DM prevede di applicare aumenti e riduzioni -entro limiti previsti- caso per caso, quindi il riferimento ai valori medi tout court sconterebbe comunque qualche margine di incertezza).

Se pensiamo alla numerosità degli incarichi giudiziali affidati da banche e compagnie assicurative attraverso lo schema delle convenzioni, sarà subito chiara la rilevanza dei valori in gioco.

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In questa situazione, il panorama di mercato evidenzia tre diversi atteggiamenti.

1. Mancata considerazione del tema. Può sembrare singolare, ma diversi operatori soggetti alla normativa in materia di equo compenso mantengono le “vecchie” convenzioni che prevedono compensi inferiori ai valori medi previsti dai parametri ministeriali e non si curano della questione. Questo è singolare perché significa proseguire nella violazione della legge e aggravare l’esposizione potenziale dell’impresa.

2. Revisione delle convenzioni. Alcuni operatori hanno rivisto gli importi delle convenzioni allineandoli ai minimi o ai medi dei valori previsti dal DM. Sul tema occorre considerare due aspetti:

  • inserire nelle convenzioni dei compensi allineati ai valori minimi dei parametri ministeriali è una scelta erronea, dal momento che -come detto- il DM prevede che il giudice debba liquidare il compenso tenendo conto dei valori “medi”;
  • in generale, la normativa in materia di equo compenso prevede la necessità di valutazioni specifiche: “equo”, come si è detto prima, vuol dire -oltre che conforme ai parametri ministeriali- anche proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto e al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale. Ipotizzare un compenso fisso, senza valutazioni caso per caso (o perlomeno casistica per casistica) non è conforme alle previsioni normative e non esclude il rischio di legittime pretese aggiuntive da parte dell’avvocato.

3. Beauty contest digitale. Altri operatori hanno optato per la proposta che 4cLegal ha rivolto al mercato all’indomani dell’entrata in vigore della normativa. La proposta è quella di “uscire” dalla dinamica delle convenzioni imposte dall’impresa all’avvocato per scegliere invece una vera dinamica negoziale, nella quale l’impresa descriva l’incarico (o il lotto di incarichi) da affidare e l’avvocato formuli la sua offerta di assistenza nel contesto di una procedura comparativa online (beauty contest digitale). Procedura che, in quanto svolta grazie a un’apposita piattaforma 4cLegal, consente rapidità e semplicità di gestione anche su grandi volumi. Una determinazione del compenso degli avvocati a seguito di beauty contest digitale sarebbe fuori dall’ambito di applicazione della normativa in materia di equo compenso ed eliminerebbe in radice i rischi ad essa connessi.

Peraltro, si lasci dire, è certamente l’avvocato colui che meglio di chiunque può indicare un compenso “soddisfacente” per il suo lavoro, tornando a una dinamica di rapporti rispettosa della professionalità del ceto forense.

Se l’obiettivo dell’impresa è quello di poter dimostrare, in un eventuale contenzioso, che è stato effettivamente l’avvocato a formulare liberamente la sua proposta di compenso, allora il beauty contest digitale -quale procedura comparativa tracciata- risulterà anche più credibile del singolo preventivo presentato dall’avvocato (debole) e accettato dall’impresa (forte), scenario -quest’ultimo- che più facilmente potrebbe prestarsi a rappresentare una dinamica negoziale nella realtà mai avvenuta.  Lo stesso CNF, con parere a firma del Prof. Avv. Guido Alpa, spiega che “la tecnica del rovesciamento delle posizioni, di offerente e di oblato, tale da trasformare l’oblato in offerente e l’offerente in oblato, è un espediente che non vale a sottrarre la convenzione ai controlli … Si tratta di un espediente cui normalmente ricorrono le compagnie di assicurazione e le banche, ma la situazione non cambia ai fini della tutela della parte debole del rapporto” (L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi, 24 settembre 2018).

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In conclusione, la normativa sull’equo compenso rischia di trasformarsi in un danno economico -ma anche reputazionale- per gli operatori che non affrontano il tema in modo serio e strutturato. La sensazione è che in molti preferiscano ritardare la riflessione, in questo confermando la tendenza di taluni a subire, piuttosto che ad affrontare a viso aperto, il cambiamento.

Al contrario, questa può essere -e per alcuni già è stata- l’occasione per confrontarsi con un nuovo paradigma delle relazioni tra imprese e avvocati.

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