03 Marzo 2020

Accertamento induttivo e responsabilità penale: profili di incompatibilità

VALERIO ROCHIRA

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Abstract

L’accertamento induttivo previsto dall’art. 32, c. 1, n. 2) del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 51, c. 2, n. 2) del D.P.R. n. 633/1972, basato su presunzioni e ammesso pacificamente dalla giurisprudenza tributaria, che ritiene le disposizioni de quibus legittime anche sotto il profilo costituzionale e in linea con gli indirizzi sovranazionali e internazionali, resta invece incompatibile con l’ordinamento penale generale, richiedendo quest’ultimo la sussistenza “aldilà di ogni ragionevole dubbio” degli elementi fondanti la responsabilità criminale.

L’assoluta insufficienza del metodo induttivo ad accertare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato tributario, in conformità con i parametri di certezza di cui all’articolo 533 c.p.p., rileverà all’esito di questo breve studio sia ove esso venga inteso quale regola di giudizio che come regola probatoria effettiva.

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Le presunzioni relative come prove indirette del fatto di reato

Seguendo l’orientamento consolidato della Giurisprudenza di legittimità, si deve partire dal principio secondo cui il Giudice penale non potrà utilizzare, ai fini della prova del fatto, il meccanismo della mancata prova contraria per poter accertare il fatto “fiscale” posto alla base dell’imputazione a carico del contribuente-imputato.

Tal che, per il giudice penale è impossibile poter ritenere provato un fatto di reato “fiscale” sulla base dell’automatismo presuntivo vigente in materia tributaria.

Difatti, se pur valido il principio generale secondo cui le presunzioni legali poste in ambito tributario non possono avere validità di prova stricto sensu degli elementi direttamente attinenti al fatto di reato, ex art. 187 c.p.p.; non pare altrettanto definito, all’interno del panorama giurisprudenziale di legittimità, il regime probatorio effettivo di tali presunzioni.

Invero, un risalente orientamento riteneva che l’accertamento del reato tributario potesse autonomamente fondarsi sulle presunzioni legali tributarie (quantomeno quelle relative), purché il giudice, a supporto del proprio libero convincimento, apprestasse una congrua motivazione in ordine all’attendibilità dell’esito degli accertamenti presuntivi operati dalla polizia tributaria.

Di converso, l’orientamento più recente e maggioritario ritiene che l’unico regime probatorio delle presunzioni legali tributarie debba esclusivamente essere individuato nella disciplina della prova indiziaria, ex art. 192 comma 2 c.p.p..

Pertanto, il giudice, pur avendo quale unico criterio decisionale il principio del “libero convincimento” (art. 192, co. 1 c.p.p.), è comunque sottoposto al limite legale di cui all’art. 192 comma 2 c.p.p., ove si escludono dal novero degli elementi utilizzabili dal giudicante quelli di natura indiziaria, salvo che essi siano gravi, precisi e concordanti.

 

Il procedimento cautelare reale

Proprio per la loro natura di dati di fatto aventi valore indiziario, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie ben possono essere poste a fondamento di un provvedimento cautelare reale, fondandosi quest’ultimo sulla mera discovery del compendio probatorio formatosi unilateralmente a seguito delle indagini del P.M. procedente.

Giova a tal proposito ricordare, che, ai fini dell'applicazione della cautela reale, non occorre che il compendio indiziario si configuri come grave ai sensi dell’art. 273 c.p.p., essendo sufficiente l’esistenza del fumus commissi delicti in concreto, donde la pacifica idoneità secondo la Giurisprudenza di legittimità delle presunzioni tributarie ad assurgere a elementi fondanti il sequestro.

Le perplessità sul punto concernono la contraddittorietà dell’interpretazione normativa, infatti, soprattutto ove il sequestro (finalizzato alla confisca) interessi beni aziendali o quote sociali - di cui magari non vi è concesso nemmeno l’uso - la misura ablatoria, ancorché provvisoria, si concretizza in una paralisi dell’attività d’impresa, con ingiusta compressione dei diritti costituzionali tutelati agli artt. 4 e 41 Cost., fondandosi il sequestro (e la futura confisca in caso di mancata prova contraria) su mere presunzioni legali, manifestamente lesive delle garanzie costituzionali e convenzionali.

 

Conclusioni

Orbene, nonostante l’accertata incompatibilità fra regime probatorio tributario e regime penale, il giudice ben potrà ugualmente utilizzare le presunzioni poste dal legislatore in ambito tributario per fondare sia il proprio libero convincimento, e quindi ritenere raggiunta la prova della colpevolezza aldilà di ogni ragionevole dubbio, sia accogliere richieste ablative cautelari nei confronti del contribuente che sovente, oltre a comprimere gli interessi economici dell’imputato anzitempo, influiscono sulle strategie processuali e sulle scelte difensive del medesimo.

In altre parole, se l’art. 533 c.p.p., in quanto espressione del giusto processo ex artt. 111 Cost e 6 CEDU, impone che la prova della sussistenza degli elementi costitutivi del fatto di reato debba sussistere aldilà di ogni ragionevole dubbio, gli orientamenti giurisprudenziali sopra sintetizzati, non fanno altro che eludere ingiustamente detto principio.

L’esperienza forense insegna che in ogni giudizio volto all’accertamento di un fatto di reato tributario, la determinazione del superamento della soglia di punibilità avviene – sempre – sulla base delle regole presuntive indicate in premessa. Spesse volte la trasmigrazione indiscriminata di tali regole nel giudizio penale lascia più di un ragionevole dubbio circa l’esatta quantificazione della somma evasa. Il risultato è che se per un verso nel processo tributario l’effetto più grave di un calcolo incertus an et incertus quantum altro non spiega che effetti patrimoniali; per altro verso nel processo penale, a essere compromessa ingiustamente sulla base di poliziesche presunzioni e vaghezze interpretative è la libertà personale.

Il convincimento di qualificare le presunzioni tributarie quali veri e propri elementi di prova indiretta pur essendo gli stessi, per loro natura, elementi di carattere normativo che impongono già al giudice di operare una fictio juris si conclude in sostanza in una presunzione della presunzione.

In pratica, si vuol far passare come elemento indiziario - avente comunque effetto indirettamente probatorio - una costruzione giuridica sconnessa da elementi reali, il cui effetto è l’equiparazione di tale finzione alla sussistenza di principi di prova naturale.

Trattasi di una doppia finzione giuridica dell’accertamento del fatto tributario, ove da una parte l’elemento di prova è di per sé già presupposto, in veste della propria natura di “presunzione legale”, e, dall’altra, tale finzione riveste, in campo processuale penale, un’altrettanta natura indiretta, quanto presuntiva, in relazione al fatto di reato da provare solamente secondo i canoni interpretativi dell’art. 192, co. 2, c.p.p.

Alla luce di quanto argomentato, pare a chi scrive quanto meno assai improbabile il superamento di ogni ragionevole dubbio soltanto sulla base di prove elaborate a seguito di costruzioni fittizie, frutto dell’accertamento induttivo operato dall’Amministrazione Finanziaria (soggetto avente interesse patrimoniale diretto), fatto proprio dalla Pubblica Accusa in assenza di contraddittorio, e applicato – quod non – dal giudicante sulla base di un’ulteriore duplice costruzione mentale e finzione giuridica, sconnessa da realtà fattuali, aggrappata con le unghie soltanto al libero convincimento interpretativo del compendio probatorio, ancorché meramente indiziario.

Si può in tal guisa affermare, anche de jure condendo, che dovrebbe restare ferma l’ermetica incomunicabilità tra il processo penale e il processo tributario, proprio a causa del diverso regime probatorio, pur continuando a sussistere interferenze reciproche.

 

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