15 Ottobre 2018

La bella addormentata nel bosco, il mammut e Starbucks

LUCIO BONGIOVANNI

Immagine dell'articolo: <span>La bella addormentata nel bosco, il mammut e Starbucks</span>

Abstract

Un'antica fiaba ci aiuta a riflettere su un argomento che l'opinione pubblica avverte con vivissimo interesse.

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Stupisce la forza profetica delle favole, la loro capacità di cogliere aspetti universali dell’animo umano anche a distanza di secoli. "La Bella Addormentata nel Bosco", ad esempio, fa chiarezza su un profilo che è assai di moda ai giorni nostri: la discriminazione.

Leggendo “La bella addormentata nel bosco” si viene subito colpiti dalla sproporzione narrativa che coinvolge l’intero racconto. Sembra incredibile, infatti, che il mancato invito alla festa per la nascita di una bambina possa aver offeso a tal punto fata Malefica da averla indotta a pronunciare un incantesimo di morte nei confronti della neonata. Vero è che il maleficio verrà mitigato da una fata buona (una di quelle invitate alla festa), ma la ragazza resterà comunque condannata a sorbirsi cent’anni di sonno forzato sol perché suo padre, quindici anni prima, non aveva invitato Malefica alla festa. Mi pare eccessivo, francamente.

E allora dobbiamo riflettere sul senso profondo della fiaba, che illustra la dinamica distruttiva e rancorosa che viene innescata dall’essere discriminati. O meglio, dal sentirsi discriminati. E sì, perché in questa storia non c’è alcuna ingiusta discriminazione, ma solo il legittimo esercizio del diritto del padrone di casa a invitare chi vuole.

Discriminare, infatti, significa distinguere, differenziare. Si tratta, di per sé, di un comportamento neutro, a cui ultimamente però si è data una connotazione fortemente negativa, perché si interpreta questo termine quale sinonimo di negazione arbitraria di diritti. Ne è derivato che il termine discriminazione oggi viene inteso automaticamente come discriminazione ingiusta, con ciò dimenticando che "discriminare" - cioè distinguere, differenziare - è un atto perfettamente legittimo e naturale, che non manifesta di per sé alcuna ingiustizia, se compiuto nel rispetto del principio di realtà e di uguaglianza.

Dobbiamo evitare, in altri termini, di considerare ingiusta qualunque forma di differenziazione, di discriminazione appunto, pena una pericolosa confusione che finirebbe per indebolire le tutele che l'ordinamento doverosamente predispone per sanzionare le discriminazioni ingiuste: se ogni discriminazione fosse automaticamente ingiusta, paradossalmente nessuna lo sarebbe in concreto!

Ma oggi tutti si sentono ingiustamente discriminati, riguardo ad ogni aspetto, a prescindere dal fatto che lo siano realmente. E attorno a queste discriminazioni si coagulano le indignazioni di moltitudini di leoni da tastiera che sui social networks inveiscono, solidarizzano, pontificano e invocano l’uguaglianza, senza sapere spesso di cosa parlano. Si compiacciono di un indistinto egualitarismo senza considerare che uguaglianza è parità di trattamento a parità di condizioni, non certo parificazione forzata di situazioni differenti.

Per tornare alla favola, tutto nasce dal fraintendimento di Malefica, che crede di avere un diritto in realtà inesistente, quello cioè di dover essere invitata alla festa. Ma perché ci risulta così indigeribile accettare che la vita è fatta di differenze, le quali innescano la dinamica della scelta, su cui l'intera vita si fonda? E perché non accettiamo che il meccanismo della scelta è perfettamente naturale e non determina, per ciò stesso, alcuna ingiusta discriminazione? Scegliere non vuol dire discriminare.

L’egualitarismo è una tentazione che attanaglia l’uomo di ogni tempo e che si ripresenta sempre sotto aspetti apparentemente nuovi, riconducibili però alla medesima matrice, quella di un frainteso egualitarismo cucinato ora in salsa economica, ora in salsa ambientalista, sociale, animalista e tanto altro. Si tratta sempre della stessa musica. Non riusciamo proprio ad accettarle le differenze, è più forte di noi, sembra quasi che sia iscritto nel nostro DNA.

E allora sospetto che sia proprio così, che debba trattarsi di qualcosa di genetico, non c’è altra spiegazione. In fondo il nostro DNA si è formato nel lunghissimo periodo in cui eravamo cacciatori-raccoglitori, quei millenni in cui vivevamo in comunità ristrette e nomadi e le differenze sociali erano pressoché inesistenti e quelle economiche pure. Per forza, quando si ammazzava un mammut mangiavano tutti per settimane; non perché gli esseri umani allora fossero più buoni rispetto ad oggi, ma perché non c’erano i frigoriferi e non esistevano magazzini di stoccaggio per conservare le merci, primo passo per l’accumulo a vantaggio di alcuni e a detrimento di altri. Tutte conquiste che poi ci sono state regalate dalla rivoluzione agricola, in tempi relativamente recenti.

Questa cosa del mammut ci deve esser rimasta dentro in qualche modo, solo che poi l’abbiamo fraintesa e l'abbiamo estesa a tutti gli aspetti della vita, in barba al principio di realtà. Questa storia nata forse dal mammut, quindi, è poi sfociata nella presunta discriminazione ingiusta che fata Malefica ritiene di aver subito per non esser stata invitata alla festa.

È di qualche settimana fa la notizia che il Codacons si sarebbe rivolto all'Antitrust denunciando Starbucks per l'alto costo del caffè, fuori mercato al punto da non consentire a tutti l'acquisto della bevanda ... come se esistesse il diritto di ciascun essere umano a bere un caffè da Starbucks! Ecco di nuovo il mammut, sotto altre spoglie.

E forse allora “La bella addormentata nel bosco” vuol dirci proprio questo, che cioè non dobbiamo piantar grane se qualcuno non ci invita alla sua festa. La gioia di ogni rapporto umano, in fondo, consiste proprio nel fatto di essere personale, unico, irripetibile, necessariamente libero. Non può invocarsi il diritto alla considerazione e alla stima altrui. Questo diritto non esiste, non può esistere, sarebbe la negazione di sé stesso.

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