27 Maggio 2019

La Casa di Carta

LUCIO BONGIOVANNI

Immagine dell'articolo: <span>La Casa di Carta</span>

Abstract

Perché talvolta ci immedesimiamo nei delinquenti e facciamo il tifo per loro?

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La serie televisiva spagnola “La Casa di Carta” merita qualche riflessione in materia di Giustizia. E’ la storia di una rapina messa a segno nei locali della Zecca di Madrid, proprio lì dove si stampano le banconote. Non si tratta, infatti, di una rapina tradizionale (non si costringe nessuno a consegnare il denaro), ma di un uso improprio dei macchinari della Zecca, per stampare cartamoneta a proprio vantaggio.

Ecco, indipendentemente dai mille rivoli in cui si articola la storia, vorrei soffermarmi su un aspetto di sottofondo che ritengo interessante, perché accompagna e colora l’intera narrazione. Mi sono accorto, infatti - man mano che scorrevano le puntate - di fare il tifo per i rapinatori, di stare dalla loro parte. E allora mi sono chiesto il perché. Si potrebbe ribattere, a questo proposito, che il piano criminoso si prefiggeva espressamente di conquistare la simpatia dell’opinione pubblica, perché l’intera operazione avrebbe dovuto essere percepita come una sorta di atto di giustizia che nulla avrebbe tolto ai cittadini: quante volte, infatti, è stato stampato denaro per iniettare liquidità nel sistema e salvare le banche? Questa volta, invece, si sarebbe stampato a beneficio di coraggiosi cittadini che sfidavano il sistema! E nessuno si sarebbe fatto male.

Ma queste considerazioni non mi hanno convinto. Continuo a credere che la mia simpatia per i rapinatori abbia origini più profonde e che non sia solo il frutto di un piano ben riuscito.

E quindi ho cominciato a sfogliare il carciofo, a esaminare i pensieri che mi si presentavano alla mente, dai più evidenti fino a quelli più nascosti, dai più grossolani fino a quelli che stanno più giù, difficilmente distinguibili, quasi impalpabili.

E ho pensato: si parteggia per i rapinatori perché ci si affeziona sempre a chi si conosce e, puntata dopo puntata, conoscevo i delinquenti sempre di più e fatalmente mi sentivo dalla loro parte. Beh, forse questo è vero, però la storia mi ha fatto conoscere anche i poliziotti ed erano simpatici anche loro, dopo tutto. Quindi, neppure questa faccenda della conoscenza che crea simpatia non mi ha convinto del tutto.

E allora mi sono detto: ci si affeziona a un progetto, a un programma comune - tanto più se coraggioso e folle - perché unisce, mette tutti nella stessa trincea, crea cameratismo. Anche questo è vero, in un certo senso. Ma è anche vero che il programma comune lo avevano anche i poliziotti, non soltanto i rapinatori. Perché, allora, ho fatto il tifo per questi ultimi?

Penso che la risposta si trovi in quel meccanismo che fa la fortuna dello sport e di tanti programmi televisivi: il processo di identificazione. Tendiamo tutti a identificarci con qualcuno o qualcosa.

Ma spesso lo facciamo male.

Voglio dire, cioè, che le immagini delle rotative che vorticosamente stampavano bigliettoni da cinquanta euro e verdi rotoloni di banconote da cento euro han fatto sì che io mi immedesimassi nella situazione di chi si illude che esista una soluzione immediata a tutti i problemi materiali, che ci si possa trincerare una settimana dentro a un palazzo per stampare tutte le banconote che serviranno a garantirti una vita serena e comoda. Per questo tendo a sentirmi uno della banda, a solidarizzare con loro: per partecipare al sogno che sempre ha tentato l’uomo e sempre lo ha rovinato.

Il fatto è - e veniamo così al punto centrale della faccenda - che fare il bene non è affatto spontaneo, non viene naturale. L’essere umano si trova nella situazione paradossale di chi, pur potendo individuare la via giusta (quella che realizzerà il proprio bene) si ritrova spontaneamente a percorrere un’altra strada, che sa perfettamente non essere quella giusta.

Ecco perché non bisogna mai cadere nella trappola - oggi particolarmente di moda - dello spontaneismo, del “và dove ti porta il cuore”. Guai se andassimo dove ci porta il cuore. Guai a confondere bontà e spontaneità, giustizia e spontaneità. Il mio cuore, per esempio, mi porterebbe dentro la Zecca di Madrid, a fianco dei rapinatori, anche se sono sinceramente persuaso che il mio bene stia dall’altra parte, tra coloro che cercano di impedire il crimine che, per quanto lo si voglia edulcorare e imbellettare di nobili argomenti, resta sempre un crimine.

La Giustizia non si colloca nel campo del “soggettivo”, come oggi si tende a credere. Ciò che io provo, ciò che io sento non è affatto detto che sia giusto e che sia buono. Anzi, spesso non lo è per nulla.

Dobbiamo fare molta attenzione a questo quando parliamo di Giustizia!

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