04 Novembre 2019

Il diritto all’oblio tra formante giurisprudenziale e gdpr

PROF. AVV. VALENTINA PICCININI

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Abstract

Nonostante la complessa riforma del trattamento dei dati personali attuata con l’entrata in vigore del GDPR, di una precisa definizione di diritto all’oblio non si può ancora discernere. Gli aspetti definitori e di tutela rimangono perlopiù ancora riservati al formante giurisprudenziale che, negli anni, ha comunque dimostrato particolare efficienza sia a livello nazionale che sovrazionale.

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Il decisivo ruolo del formante giurisprudenziale nel riconoscimento del diritto all’oblio.

La questione giuridica afferente al riconoscimento del diritto all’oblio si è prospettata in prima battuta in ambito sovranazionale dove ha trovato positivo riscontro grazie all’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Il leading case è costituito dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea  C-131/12 del 13 maggio 2014 (più comunemente chiamata sentenza Google Spain), nella vigenza della Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, poi abrogata dal Regolamento 2016/679/UE (c.d. GDPR). Nel caso di specie, Google era stato condannato alla deindicizzazione di alcuni siti internet che ancora riportavano notizie lesive della sfera privata e della dignità di un cittadino europeo di origine spagnola risalenti a sedici anni prima. I principi pronunciati dalla Corte di Giustizia si sono rivelati, nel tempo, di grande importanza. In particolare, è stato affermato che il diritto dell’interessato a chiedere che l’informazione non sia più messa a disposizione del pubblico mediante la sua inclusione in un elenco accessibile tramite internet prevale sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca ed anche su quello del pubblico a reperire informazioni in rete

Anche nel nostro ordinamento giuridico, il diritto all'oblio costituisce il frutto dell’opera interpretativa della giurisprudenza. In Italia vi sono state negli ultimi anni diverse sentenze, sia delle corti di merito[1] che della Suprema Corte di Cassazione[2], che hanno espressamente riconosciuto il diritto all'oblio, facendo applicazione dei principi statuiti nella sentenza Google Spain.

A tale giurisprudenza si aggiungono le diverse pronunce favorevoli dell’Autorità Garante della Privacy. Di particolare interesse, il Provvedimento del 21 dicembre 2017 n. 557 del Garante Privacy, con il quale è stato condannato Google a deindicizzare link non soltanto europei ma anche extra UE, riconoscendo così all'interessato tutela effettiva anche al di fuori dei confini UE. Nella specie, il Garante ha preso espressamente in considerazione il fatto che, al fine di rendere effettiva la tutela di un soggetto residente al di fuori dell’Unione Europea, occorre estendere l’attività di rimozione degli URL in questione anche alle versioni extraeuropee del motore di ricerca, e ha ordinato così di  rimuovere gli URL deindicizzati fra i risultati di ricerca sia nelle versioni europee che extraeuropee, estendendo tale attività anche agli URL già deindicizzati nelle versioni europee di Google.

 

Il bilanciamento tra il diritto all'oblio e il diritto di cronaca: l’intervento delle Sezioni Unite

In Italia il tema di cui più si è occupata la giurisprudenza è il bilanciamento tra il diritto all’informazione e il diritto alla riservatezza, inteso come diritto all'oblio, entrambi di rango costituzionale. Nel 2018 la terza Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 5 novembre 2018 n. 28084, ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima di particolare importanza relativa alla definizione dei criteri di bilanciamento tra diritto di cronaca, al servizio dell’interesse pubblico all’informazione, e diritto all'oblio affermando come fosse ormai indifferibile “l’individuazione di univoci criteri di riferimento che consentano agli operatori del diritto (ed ai consociati) di conoscere preventivamente i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto di chiedere che una notizia, a sé relativa, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione”.

Nel 2019 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate con sentenza n. 19681 del 22 luglio. In primo luogo, hanno rappresentato le diverse accezioni in cui può essere inteso il diritto all’oblio: (i) quale diritto di un soggetto a non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende, in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione; (ii) il diritto alla cancellazione dei dati; (iii) il diritto a vedere una notizia pubblicata in internet molti anni prima correttamente collocata nel contesto attuale.

In seconda battuta, hanno ridotto la prospettiva dell’indagine rispetto all'ordinanza di remissione al solo aspetto relativo al rapporto tra diritto alla riservatezza e diritto alla rievocazione storica (che è ben diverso dal diritto di cronaca), affermando l’importante principio per cui  in tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all’oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, è da valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell'ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell'onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva.

 

Il diritto all’oblio nel Reg. Ue 2016/679

Nel Regolamento 2016/679 il diritto all'oblio è trattato dall’art. 17, rubricato “Diritto alla cancellazione”, prevedendone i diversi strumenti di tutela, senza tuttavia particolari innovazioni rispetto alla Direttiva 95/46.

Il diritto all'oblio disciplinato dall’art. 17 del GDPR è, difatti, da intendersi solo nell'accezione di diritto alla cancellazione dei dati di una persona fisica, esteso e regolato anche con riferimento alla società digitale. Più nello specifico, si tratta del diritto alla cancellazione dei dati quando essi non sono più necessari per le finalità per cui sono stati raccolti, o quando viene revocato il consenso e i dati non possono essere trattati dal titolare su una base giuridica diversa.

Si aggiunge poi il diritto alla cancellazione nei casi espressamente previsti dalla normativa degli Stati Membri, ex art. 6, paragrafo 1, o il caso dei dati trattati in base all’art. 9, paragrafo 2, lettera a), che riguarda i dati un tempo detti “sensibili” che richiedono un consenso che l’interessato a suo tempo ha dato e successivamente revocato. Inoltre, al pari della Direttiva 95/46, la cancellazione è dovuta quando i dati siano trattati illecitamente, o essa si basi sulla necessità di adempiere a un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dalle leggi di uno Stato membro.

Infine, la norma precisa anche che la cancellazione è obbligatoria quando i dati sono stati raccolti in base all’art. 8, paragrafo 1, e cioè rispetto a servizi offerti dalla società dell’informazione a minori di anni 16 (o dell’età che ciascun Stato potrà fissare, purché non inferiore a 13 anni) senza il consenso di chi ha la responsabilità genitoriale.

Per quanto detto sin qui, l’art. 17 non ha introdotto modalità davvero innovative rispetto al diritto alla cancellazione previsto dalla precedente Direttiva.

La parte sicuramente nuova riguarda il dovere specifico posto a carico del titolare del trattamento che riceve una richiesta di cancellazione quando i dati che ne sono oggetto sono stati resi pubblici dal titolare stesso.

In questa ipotesi l’art. 17 paragrafo 2 impone al titolare non solo di cancellare i dati, qualora ritenga legittima la richiesta. Egli deve anche, “tenuto conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione”, adottare “misure ragionevoli, anche tecniche” per informare della richiesta che gli è pervenuta anche gli altri eventuali titolari che stanno utilizzando i dati a lui resi pubblici. Ciò ovviamente presuppone che i dati oggetto della richiesta siano stati resi pubblici dal titolare stesso, e che egli sia a conoscenza che altri titolari li stanno trattando e sia in grado di individuarli.

Quello che conta segnalare è che quando ci si riferisce al diritto all'oblio ai sensi del nuovo GDPR si parla di cosa estremamente complessa, che va molto oltre il diritto all'oblio applicato al motore di ricerca e alle notizie diffuse attraverso i mezzi della società dell’informazione.

Di fatto, il diritto all'oblio è ancora di là da ricevere una chiara ed univoca definizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Trib. Roma, 3 dicembre 2015

[2] Cass. Civ., Sez. I, 24 giugno 2016, n. 13161.

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