25 Marzo 2019

Grease

LUCIO BONGIOVANNI

Immagine dell'articolo: <span>Grease</span>

Abstract

In che modo il gruppo al quale apparteniamo condiziona le nostre scelte?

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Nietzsche sosteneva che “la follia è molto rara negli individui, ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola”. Il filosofo tedesco descriveva così il pericolo che si annida in ogni gruppo sociale e che condiziona in maniera determinante le scelte compiute dai singoli.

Esiste una sterminata letteratura che descrive il fenomeno dell’incidenza del gruppo sui comportamenti di coloro che ne fanno parte: storie di mafia, storie di gruppi terroristici, storie che descrivono le dinamiche dei gruppi adolescenziali. Da tutta questa produzione emerge un’unica indicazione: l’essere umano, pur di compiacere le aspettative del proprio gruppo di riferimento, è capace di commettere i più efferati crimini senza cogliere, talvolta, neppure il disvalore delle azioni che esegue.

Se vogliamo esaminare, quindi, i fenomeni di Giustizia, non si può prescindere dall’analisi del condizionamento profondo che ogni gruppo primario (partito, comunità ideologicamente orientata, famiglia, etc.) esercita sui singoli componenti dello stesso.

Mi riferisco, cioè, al fatto che tutti noi (e non soltanto i delinquenti o gli adolescenti) siamo profondamente condizionati dal nostro gruppo sociale di riferimento quando facciamo ogni cosa, quando addirittura pensiamo le cose. Le nostre categorie mentali filtrano informazioni e dati affinché pensiamo qualcosa che possa poi rafforzarci nella considerazione dei nostri “superiori” o consolidare il nostro potere all’interno del gruppo stesso.

E’ per questa ragione, quindi, che voglio ricordare un film che non descrive un gruppo criminale, proprio perché sia chiaro che il condizionamento che tutti noi subiamo da parte del nostro gruppo di riferimento è un fenomeno comunissimo, a noi connaturato, e non riguarda esclusivamente persone immature e prive di personalità: “Grease”, il film cult degli anni ’70 con John Travolta e Olivia Newton John.

La storia la conoscono tutti: Olivia Newton John è una ragazza australiana per bene e all’antica che trascorre un’estate negli Stati Uniti, durante la quale flirta con un ragazzotto (John Travolta) che fa il gentile con lei. Succede, però, che la famiglia di Olivia Newton John deve trattenersi negli Stati Uniti oltre il tempo previsto, quindi la ragazza si iscrive a scuola dove incontra lui, John Travolta, che però si rivela presto diverso dal ragazzo dolce conosciuto nel periodo estivo, perché totalmente condizionato dalla logica del gruppo di amici che frequenta, tutto intriso di miti quali l’auto, la brillantina e la sigaretta (siamo, più o meno, negli anni di “Gioventù bruciata”, per intenderci).

John Travolta è dilaniato, straziato tra l’amore per Olivia Newton John e la fedeltà al gruppo, che ovviamente disprezza lo stile di vita della ragazza australiana, sicché il nostro eroe rischia seriamente di mandare in malora l’amore della sua vita pur di non deludere le aspettative dei suoi amici … ma alla fine Olivia Newton John gli toglierà le castagne dal fuoco, trasformandosi in una perfetta ragazzotta del branco, con tanto di pantalone di pelle attillato e acconciatura vaporosa.

Si può discutere per ore sull’opportunità e sulla correttezza della scelta compiuta da Olivia Newton John, se cioè essa manifesti la disponibile apertura propria di un amore sincero, oppure se rappresenti la capitolazione definitiva alla forza del branco anche da parte di elementi esterni ad esso.

Il profilo che mi interessa analizzare - come ho già detto - riguarda l’ossessivo e totalizzante bisogno di ogni essere umano di carpire il consenso degli altri membri del proprio gruppo di riferimento principale. Senza aver chiare le caratteristiche fondamentali di questo bisogno, si rischia di non comprendere fenomeni che hanno rilevanza diretta nell’ambito della Giustizia.

Ecco, tutti noi siamo vittime di una distorsione che ci induce a cercare nel consenso degli altri membri del nostro gruppo fondamentale di riferimento quel consenso e quell’approvazione di cui abbiamo vitale bisogno. Ripeto: tutti abbiamo un gruppo primario, quello al quale ispiriamo le nostre scelte e per il quale saremmo disposti a tutto. Non possiamo vivere senza essere inseriti in un gruppo primario. Può chiamarsi famiglia, partito, ideologia del momento o quel che volete, ma deve esser chiaro che ce l’abbiamo tutti e con esso instauriamo un rapporto di tipo idolatrico, nel senso che cerchiamo di ricevere da esso quell’approvazione assoluta di cui abbiamo bisogno vitale. Sennonché, questo bisogno di consenso non è altro che la distorsione del desiderio di amore assoluto di cui necessitiamo ma che non possiamo trovare in nessun rapporto che, per definizione, possiede un carattere parziale.

Il nostro guaio è che cerchiamo negli altri membri del gruppo (che, in fondo, sono altri poveri disgraziati come noi) risposte affettive totalizzanti che non ci possono dare e questo innesca meccanismi di violenza anche all’interno del gruppo di riferimento, che diventa un campo di battaglia in cui tutti i membri cercano forsennatamente di consolidare la propria posizione di potere per saziare il proprio bisogno inestinguibile di consenso. Insomma, un cane che si morde la coda, vero e proprio volano di infelicità.

Il nostro problema, quindi, consiste in questo continuo ripiegamento verso il basso, verso il nostro gruppo di riferimento al fine di carpirne il consenso, destinati così a restare sempre più dipendenti da questo idolo che ci rende schiavi, fino a farci talvolta smarrire il senso morale delle azioni che la logica del gruppo ci induce a compiere. L’esigenza del consenso identitario, infatti, finisce col prevalere su ogni altro elemento e su ogni altra considerazione.

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