02 Maggio 2024

Greenwashing: profili penalistici secondo l’ordinamento giuridico italiano

NICOLO' FERRARIS

Immagine dell'articolo: <span>Greenwashing: profili penalistici secondo l’ordinamento giuridico italiano</span>

Abstract

Greenwashing: è reato? Nell’ordinamento giuridico italiano non esiste (ancora) una specifica fattispecie, ma recenti interventi giurisprudenziali conducono a pensare alla truffa (art. 640 c.p.) o la frode in commercio (art. 515 c.p.). 

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Con il termine greenwashing vengono designate tutte quelle pratiche aziendali che enfatizzano in modo ingannevole la sostenibilità ambientale.

L’inquadramento giuridico di questo fenomeno coinvolge in primo luogo istituti, a tutela del mercato, di diritto civile e amministrativo; tuttavia sono possibili contestazioni in sede penale, con conseguenze anche in relazione alla responsabilità ex D. Lgs. n. 231/2001.

Ad assumere un ruolo centrale sono normative di derivazione dal diritto UE, codice del consumo, disciplina della pubblicità ingannevole, sistema di autodisciplina IAP, norma codicistica sulla concorrenza sleale. Va, peraltro, ricordato che il 28 febbraio 2024 è stata approvata la nuova direttiva 2024/825, che dovrà essere nei prossimi due anni recepita nella normativa nazionale degli Stati membri.

 

Tutela giurisdizionale e amministrativa

In primo luogo, è prevista dal codice del consumo un’articolata procedura avanti l’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), disponibile anche alle associazioni rappresentative di interessi 

diffusi. La procedura prevede, in caso di accertata pratica scorretta, sanzioni pecuniarie anche molto ingenti e interdittive (sospensione dell’attività di impresa sino a trenta giorni) per inottemperanza reiterata.

Tale tutela non sostituisce la giurisdizione ordinaria, disponibile ai concorrenti per atti di concorrenza sleale (2598 c.c.), e ai consumatori con l’azione collettiva ex artt. 840 bis cc. c.p.c., con legittimazione attiva anche delle associazioni iscritte nell’elenco presso il Ministero della Giustizia, anche senza mandato dei consumatori interessati. Il presupposto è la lesione di diritti individuali omogenei, ed è prevista la condanna dell’autore del comportamento lesivo al risarcimento e/o alla restituzione, e a subire interventi inibitori.

Vi sono ormai varie pronunce in cui sono state sanzionate pratiche commerciali che rientrano nel fenomeno del greenwashing. A essere interessante è la coincidenza dei princìpi di diritto e di categorie giuridiche nelle decisioni dell’AGCM o del giudice amministrativo o di quello ordinario, sia in casi denunciati da associazioni, sia in giudizi su iniziativa di un concorrente.

In sintesi estrema, il messaggio commerciale green – perché non venga categorizzato tra gli esempi di greenwashing – deve essere:

  • chiaro;
  • veridico;
  • accurato;
  • non fuorviante;
  • fondato su basi scientifiche espresse comprensibilmente per il pubblico.

L’onere probatorio circa il rispetto di tali caratteristiche del messaggio è posto in capo al soggetto che lo comunica: nel momento in cui magnifica caratteristiche ambientali, il dichiarante deve essere in grado di dimostrare la genuinità del messaggio. Sono censurati messaggi generici e quelli di non comprovata veridicità, sia su base qualitativa sia per dati quantitativi in relazione a elementi green (p.e. le emissioni), anche solo per la mancata prova su una parte di esse, o per la dubbia esclusività del prodotto quanto alle doti magnificate.

 

Profili penalistici e di responsabilità 231

La domanda che sorge è: in assenza di una specifica fattispecie, il messaggio scorretto integra un reato? Pochi sono gli interventi giurisprudenziali sul punto, in ogni caso la riflessione conduce in primo luogo a pensare alla truffa (640 c.p.), in particolare alla truffa contrattuale. In essa, l’atto pregiudizievole può essere identificato nella stipula del contratto a condizioni peggiori poiché il raggiro ha leso la libertà di determinazione dell'acquirente. Inoltre, il raggiro può consistere anche nel silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze idonee a determinare e a prestare il consenso. Si potrebbe, quindi, ipotizzare che il messaggio commerciale volutamente scorretto, inducendo in errore su elementi essenziali, possa integrare il delitto di truffa.

Seconda ipotesi è che esso integri la frode in commercio (art. 515 c.p.), reato commesso da chiunque nell'attività commerciale consegni all’acquirente una cosa diversa per origine, provenienza, qualità o quantità da quella dichiarata o pattuita.

Interessante è quanta rilevanza abbia la natura del messaggio pubblicitario. Prendiamo ad esempio una vicenda avvenuta all’epoca del morbo della mucca pazza: un produttore di carni evidenziava nel claim del prodotto pubblicizzato la provenienza da soli allevamenti italiani (l’Italia è uno dei Paesi ufficialmente riconosciuti non essere a rischio di BSE, Bovine Spongiform Encephalopathy). Sulle singole confezioni poi effettivamente commercializzate nessuna menzione del luogo di allevamento. Sul tema, giudice di merito e giudice di legittimità sostenevano due posizioni opposte. Per il giudice di merito il messaggio pubblicitario contenuto nel claim era precedente alla fase contrattuale, per cui non sussiste la frode in commercio; il giudice di legittimità osservava che può invece sussistere perché, nella realtà delle attività commerciali riguardanti la distribuzione di beni di largo consumo, il messaggio pubblicitario è preminente nel consenso del consumatore. Recentemente, in altro caso, si è detto che il messaggio pubblicitario scorretto può costituire frode in commercio, ma soltanto nella forma tentata, visto che la consumazione richiede una contrattazione finalizzata alla vendita.

In epoca risalente, la Cassazione ha ragionato sul rapporto tra le due fattispecie: in un caso in cui vi era stato un messaggio pubblicitario scorretto, ma il consumatore aveva avuto modo di provare il prodotto venduto, qualitativamente non diverso da quello acquistato, ha ritenuto trattarsi di truffa e non di frode in commercio, perché il claim aveva indotto all'acquisto, ma il prodotto non era un aliud pro alio.

La distinzione tra le due ipotesi è importante per le società, poiché soltanto la frode in commercio rientra tra i reati previsti dall’art. 25 bis lett. a) D. Lgs. n. 231/2001, quindi si dà luogo a un problema anche di responsabilità 231. Nell’ambito della valutazione del rischio, i professionisti consulenti delle imprese devono, quindi, riflettere anche sul tema della comunicazione.

 

Conclusioni

Gli attori economici sono chiamati sempre più a un impegno su diritti umani e sociali, inclusività e parità di trattamento, solidarietà, lealtà e trasparenza nella concorrenza. Un mercato globale, in cui i consumatori sono nelle condizioni di reperire sempre maggiori informazioni, conduce le aziende a comunicare in modo incessante in relazione a ciascuno di tali elementi, perché gli standard ESG diventano un prerequisito di mercato.

L’assunzione di obiettivi ambiziosi richiede responsabilità sulla comunicazione di quanto viene effettivamente fatto.

Occorre attenzione sul piano delle conseguenze, sia reputazionali, sia legali, di un messaggio che risulti non genuino. Si tratta di impostare un lavoro sistematico di verifica preventiva, interdisciplinare, che coinvolga giuristi, comunicatori, tecnici di prodotto e processo, affinché la comunicazione avvenga sempre in modo corretto. Lo chiede la stessa etica che guida le nuove scelte di impegno ESG delle società. Lo chiede anche la convenienza, perché iniziative scorrette possono portare a conseguenze gravi e inemendabili.

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