26 Aprile 2019

Il Mercante di Venezia

LUCIO BONGIOVANNI

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Abstract

La Giustizia senza la misericordia si riduce a un escamotage misero e furbesco.

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Se vogliamo cercare di capire qualcosa in tema di giustizia, dobbiamo per forza ascoltare quel che Shakespeare ci dice nel “Mercante di Venezia”.

Si tratta di una bruttissima storia. Il tema della giustizia viene scandagliato con una forza impressionante, ricca di capovolgimenti di fronte. Come sulle montagne russe, dopo aver raggiunto vette altissime, ci si ritrova sprofondati in bassezze inenarrabili. Diventa chiaro così che nelle pieghe del diritto si può annidare ogni cosa e pure il suo contrario.

Il processo ad Antonio è un campionario ricchissimo. Io, ovviamente, semplificherò molto, mi limiterò a sbirciare dal buco della serratura per descrivere le poche cose che riuscirò a intravedere, ben sapendo che la scena che mi perdo è immensa.

Riassumo brevemente la storia che precede il processo: un mercante, Antonio, chiede a Shylock (usuraio ebreo) un prestito per realizzare un affare. Antonio, quindi, sottoscrive un contratto in cui è previsto che, in caso di mancata restituzione della somma entro tre mesi, Shylock avrebbe potuto pretendere una libbra di carne, estratta dal corpo del mercante.

Facciamola breve. Antonio non riesce a restituire la somma e Shylock pretende giustizia, vuole cioè che sia eseguito il contratto. Ci troviamo, quindi davanti al Tribunale e sono già falliti tutti i tentativi per far desistere Shylock. L’usuraio non si accontenta di ricevere il triplo della somma che aveva prestato ad Antonio, e pretende la libbra di carne (quindi, la vita stessa di Antonio).

Il diritto è dalla parte di Shylock, la sua posizione può essere esemplificata dalla massima latina “dura lex, sed lex”! Cioè, l’applicazione della legge deve essere rigorosa anche quando ciò è doloroso. Questa è la forza di Shylock: “pacta sunt servanda” (gli accordi devono essere osservati).

A questo punto, irrompe sulla scena Porzia, travestita da giureconsulto, che pronuncia un celebre discorso in cui sollecita Shylock ad usare misericordia, perché la misericordia “è un attributo dello stesso Dio; e al potere di Dio quello terreno si fa simile quando la clemenza mitiga in esso il rigor della legge”.

Il discorso, qui, raggiunge il suo livello più alto: solo la misericordia rende simili a Dio e consente di mitigare il rigore della legge. Non ci troviamo più nell’angusto recinto di prima (dura lex, sed lex), ma in quello molto più arioso del “summum ius, summa iniuria”, quel detto romano, cioè, che insegna che l’applicazione rigida della legge è causa di grande ingiustizia. E quindi l’applicazione rigida deve essere mitigata dalla misericordia, appunto: Giustizia e misericordia, quindi, sono inscindibili.

Ma Shylock rivendica il contratto, ancora una volta. Ci pensa lui a far immediatamente precipitare la situazione. E, poco dopo, l’usuraio ci conduce fino al punto più basso dell’abiezione umana, dopo che Porzia dice: “un momento. Bisognerà però, Shylock, che abbiate vicino un chirurgo, a vostre spese, per fermare il sangue e impedire che muoia dissanguato”. Questa la risposta di Shylock: “nel contratto non c’è, non l’ho trovato”.

Ecco. La giustizia intesa come vendetta personale. Quante volte vediamo esempi simili a quello di Shylock (magari meno teatrali). Perché meravigliarci di Shylock? Basta andare, un giorno qualsiasi, nel corridoio della sezione che si occupa delle cause di separazione, in qualsiasi tribunale d’Italia, per vedere scene simili!

E qui c’è il colpo di scena, si torna sulle montagne russe e il livello del contraddittorio s’impenna di nuovo.

Quando tutto è pronto per l’esecuzione di Antonio, ecco Porzia: “Un momento; c’è qualcos’altro. Questo contratto qui non ti assegna una goccia del suo sangue; dice soltanto: “una libbra di carne”. Shylock, quindi, dovrebbe recidere la libbra di carne dal corpo di Antonio senza però versare una sola goccia del suo sangue, pena la morte.

Ecco, si dirà, giustizia è fatta. Il Giudice non ha consentito che si strumentalizzasse il diritto, che lo si riducesse a mero strumento di vendetta personale.

Vero, questo è vero. In fondo, Shylock è rimasto vittima della stessa applicazione rigorosa che andava invocando. Quindi non può dolersi di nulla.

Ma non è tutto. C’è dell’altro. E non è bello.

A questo punto, infatti, il livello precipita di nuovo, e questa volta non per colpa di Shylock. Quando l’usuraio dice: “datemi il denaro e lasciatemi andare”, subito Porzia aggiunge: “No, no, l’ha rifiutato davanti a questa Corte; deve avere la giustizia da lui stesso richiesta, vale a dire l’esatto adempimento del suo contratto, e basta”. E fu così che Shylock dovette non soltanto rinunciare ai suoi soldi, ma supplicare per aver salva la vita e pure convertirsi.

Dicevo all’inizio che si tratta di una bruttissima storia. Lo penso perché il principio di misericordia che era stato così bene enunciato non è stato poi applicato a Shylock, quindi si è rivelato un escamotage. E questo ha sporcato tutto e ci rende quasi simpatico l’usuraio.

Resta in bocca il retrogusto amaro di un’interpretazione della legge furbesca, per nulla misericordiosa. L’accanimento su Shylock lascia il sospetto che - tramite l’interpretazione - le leggi siano spesso lo strumento che l’elite utilizza per tutelare se stessa.

E forse Shylock l’usuraio aveva un’idea romantica della giustizia, pensava che fosse un’entità super partes a cui potersi appellare per invocare le proprie ragioni.

E ha dovuto imparare a sue spese che “la legge ai nemici si applica, agli amici si interpreta”.

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