19 Novembre 2019

Nuovo Cinema Paradiso

LUCIO BONGIOVANNI

Immagine dell'articolo: <span>Nuovo Cinema Paradiso</span>

Abstract

Quand’è che una vita è degna di essere vissuta? E cos’è lecito che un educatore faccia in vista del bene del ragazzo?

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Nuovo Cinema Paradiso, il film capolavoro di Giuseppe Tornatore, è un film che ha toccato profondamente la mia vita, perché affronta con poetica struggente il tema della partenza, dell’abbandono dei legami e dell’affermazione professionale. Tornatore pone, con ferocia lancinante, la questione capitale che, prima o poi, deve necessariamente essere affrontata da chi ha abbandonato la propria terra per inseguire un avvenire migliore. La domanda brutale è: alla fin fine - a conti fatti - hai fatto bene a partire oppure no?

Questo è un tema che fa rabbrividire ogni siciliano che, come me, ha impiantato la propria vita altrove. Mi accorgo di non riuscire a rimanere freddo parlando di questo film. E la questione si complica ancor di più se questa scelta non l’hai fatta tu, se al posto tuo l’ha fatta Alfredo, l’anziano cieco che, come l’indovino greco Tiresia, pretendeva di vedere meglio degli altri.

Ricorderete tutti che è stato Alfredo a tenere nascosto al giovane Totò ogni tentativo di contatto della fidanzatina, facendo in modo che i due ragazzi si perdessero di vista. Alfredo sognava per Totò un avvenire di successo lontano dalla Sicilia, e per far questo ha fatto in modo che il ragazzo troncasse ogni rapporto che potesse tenerlo legato alla sua terra, là dove ci sono - così gli ripeteva - “solo fantasmi”. Alfredo ha pagato di persona questa sua scelta, col piglio di un eroe classico, rifiutandosi da allora in poi di incontrare il ragazzo, proprio per evitare di trasformarsi egli stesso in un fantasma che potesse intralciare i passi del giovane.

Ma la scena finale del film (quella in cui Totò, ormai affermato regista a Roma, visiona piangendo il cortometraggio formato dall’insieme delle scene di baci tagliate tanti anni prima dal parroco), proprio quella scena pone senza sconti la seguente domanda di Giustizia: è giusto che una persona (o meglio, un educatore, dato che Alfredo faceva da padre al ragazzo) si sostituisca al giovane e gli imponga di fatto una scelta decisiva per la sua esistenza?

Ricordiamo che Totò non si sposerà mai, restando affettivamente legato a quel primo amore che Alfredo aveva reciso perché pensava alla Sicilia come a una terra maledetta dalla quale fosse giusto fuggire a qualunque costo.

Alfredo, se ci ascoltasse, potrebbe rispondere che il successo professionale di Totò è stato possibile solo grazie a quel doloroso taglio degli affetti. Risponderebbe che, con ogni probabilità, il fidanzamento di Totò sarebbe sfociato in una delle tante storie qualunque che si perdono nella noia e nell’abitudine e che, quindi, nulla di rilevante in realtà è stato sacrificato sull’altare della realizzazione professionale di Totò; in fondo, si è solo rinunciato a una banale storia d’amore per costruire una specialissima storia di successo. Alfredo direbbe che è giusto che lo speciale prevalga sul generale.

Tutto vero, ma è altrettanto vero che l’ultima scena del film (che sprigiona una forza evocativa di rara intensità) mette a tacere ogni argomento di apparente buon senso e riporta la questione all’interno di un recinto che bisogna considerare sacro, quello della libertà. Nessuno può essere espropriato della sacrosanta facoltà di scegliere. Mai e in nessun caso. E’ ben possibile consigliare, orientare, discutere anche animatamente, ma la decisione finale spetta sempre a ciascuno in prima persona.

E allora mi viene il sospetto che Alfredo non sia in realtà quel profeta lungimirante che potrebbe apparire in un primo momento. Anzi, temo proprio che il buon vecchio Alfredo sia prigioniero di un falso mito che, come tutti i falsi miti che si rispettino, si agghinda di virtù che vorrebbero apparire nobili, ma che si rivelano farlocche ad un’analisi che si faccia un po’ più attenta.

Dietro alla visione di Alfredo, infatti, si annida un equivoco potentissimo, quello che vorrebbe farci credere che solo una vita sorretta dalla fama e dal successo professionale sia degna di essere vissuta; tutto il resto è ombra. Si annida, cioè, la convinzione efficientista e cinica secondo la quale l’uomo saggio deve avere la forza di mettere a tacere i più profondi desideri del cuore per rendere possibile la realizzazione di se stessi, la quale passa necessariamente attraverso la negazione di quella parte di sé meno competitiva e apparentemente più banale. Alfredo, in fondo, è prigioniero dell’idea (questa sì banale e convenzionale) che una vita ordinaria non valga la pena di essere vissuta e, allora, considera doveroso ed eroico tranciare l’affettività del ragazzo per impedire che Totò possa rimanere imbrigliato in una vita qualsiasi, in una terra senza ambizioni.

Lui stesso, Alfredo, s’incarica di realizzare quest’amputazione che sarà dolorosa anche per lui.

Ma alla fine - pensando ad Alfredo - non si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un eroe greco, bensì a un poveraccio confuso e frustrato che ha avuto la malaugurata idea di riversare sul giovane Totò le proprie insicurezze, le proprie debolezze e la propria ignoranza.

Non sapete quante persone ho incontrato, in questi anni, che sono state rovinate da gente come Alfredo. Gli studi legali ne sono pieni. Verrebbe quasi da dire con Vasco, bizzarro profeta: tutta colpa di Alfredo!

Forse sto esagerando ma, come dicevo, di fronte a questa storia non riesco a mantenermi sereno.

 

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