23 Aprile 2020

Slow-fashion e sostenibilità. Il risvolto etico della moda post COVID-19

GERMANO MARGIOTTA

Immagine dell'articolo: <span>Slow-fashion e sostenibilità.  Il risvolto etico della moda post COVID-19</span>

Abstract

                                 Aggiornato al 23.04.2020

I danni provocati all’ambiente negli ultimi anni sono effetto non solo di abitudini scorrette da parte dei singoli, ma anche di scelte strategiche aziendali orientate al mero profitto. All’esito dei dibattiti susseguiti alla pandemia da Covid-19, però, si intravedono nuove prospettive per il futuro. Sopravviverà alla crisi e si affermerà su quello che sarà il nuovo mercato chi saprà rinascere con un imprinting diverso: responsabilità ambientale e business integrity dovranno essere i nuovi cardini del fare impresa, anche per le Maison.

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L’uomo è l’ambiente in cui vive

Gli studi hanno portato ormai da tempo la Corte Costituzionale a qualificare l’ambiente quale «diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività» e questo è avvenuto perché è stato dimostrato come la salute umana passi anche dall’interazione che abbiamo con l’ambiente in cui viviamo.

L’uomo è l’ambiente in cui vive. Interagisce con esso e lo trasforma. A volte, come sappiamo, lo devasta e tale azione, come un boomerang, ci ricolpisce. Forse parte dei terribili effetti scaturiti dalla pandemia in atto sono frutto di una nefasta sommatoria di errati comportamenti umani. Dunque, correre ai ripari – sperando che non sia troppo tardi per farlo – diviene imperativo.

Le recenti pubblicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno fatto emergere un dato molto sconcertante, ma forse prevedibile: circa il 24% di tutte le malattie nel mondo è dovuto all’esposizione a fattori ambientali. Dunque, va da sé che prevenire l’esposizione da questi fattori di rischio comporterebbe un diffuso vantaggio e benessere per la collettività. Peraltro, sempre stando agli studi dell’OMS, parrebbe che fra le principali malattie influenzate dalle condizioni ambientali vi siano quelle che interessano il sistema respiratorio. Difficile non riflettere sul tema proprio ora che il nostro tessuto industriale è chiamato a fare i conti con le scelte gestionali sino ad ora condotte. Ma in questi ultimi giorni di forte stress e paura, siamo riusciti anche a ricordare a noi stessi come la crisi generi sempre nuove opportunità. Concetto che forse, però, in questo caso – affinché in futuro si possa almeno pensare a questo momento come a un’epifania – dovrà essere inteso in un senso più profondo di quello prettamente economico.

L’opportunità che abbiamo oggi, infatti, potrebbe essere quella di non posticipare ulteriormente la conversione degli storici modelli industriali in sistemi eco-innovativi e produzioni sostenibili. Del resto, se oggi è troppo tardi per pensare agli errori del passato, non lo è invece per porre nuove basi che ci tutelino per il futuro.

 

Verso l’economia circolare per il settore della moda

Uno dei settori più importanti per i quali deve essere pensata una massiva ristrutturazione delle proprie dinamiche è certamente quello del fashion, comparto che, alla luce dei dai dati diffusi dalla Camera Nazionale della Moda, solo nel 2019, in Italia, pare abbia ingenerato oltre 90 miliardi di fatturato. Il problema è che rispetto ad un tempo, in cui era sconosciuto il mondo dell’e-commerce, ma soprattutto non era radicata la delocalizzazione della produzione, buona parte di questi guadagni sono stati prodotti a discapito della salute dell’ambiente e, quindi, delle persone che lo abitano.

L’industria in commento è fra quelle più inquinanti al mondo, e questo è un dato ormai da tempo reso pubblico dalle molteplici denunce fatte da chi ha studiato i processi che lo caratterizzano. Tant’è che dall’entrata in vigore del D.lgs. 231/2001 pare essersi scoperchiato il vaso di Pandora sull’argomento. Frequenti, infatti, sono divenuti i procedimenti a carico delle Società del comparto per la verifica della sussistenza della responsabilità amministrativa dipendente da lesioni e/o omicidi colposi, frodi in commercio e illeciti ambientali.

Nodo sensibilissimo sull’argomento, come si sa, è quello della designazione dei fornitori. Questione assai spinosa anche perché la catena della filiera a volte – vista la carenza di serrate procedure di verifica - è difficile da ricostruire. Ma vi è di più. La sfrenata tendenza all’abbattimento dei costi di produzione ha anche favorito nel tempo l’utilizzo di materie prime di bassa qualità e che sono spesso dannose sia per i lavoratori del settore che per i fruitori dei prodotti.

Immediati i risvolti legali sul punto, soprattutto se si pensa che buona parte delle materie prime del settore ha ad oggetto prodotti chimici. Per fare un esempio concreto, basterà ricordare come una fra le imprese del comparto moda certamente più inquinante è, da sempre, quella addetta alla conciatura delle pelli. Come si evince dagli studi condotti dall’ARPA, l’impatto ambientale di questa tipologia di lavorazione incide sulla produzione di acque reflue, fanghi, altri rifiuti, conciati e non. Determina inoltre emissioni in atmosfera, sia di volatili, sia di particolati. Inoltre, gli scarti di lavorazione delle pelli hanno iniziato negli ultimi anni ad essere considerati quali rifiuti pericolosi alla luce dell’elevata quantità di cromo in essa contenuti.

Venendo proprio al tema della gestione dei rifiuti, ed ampliando la riflessione all’intero comparto della moda e dell’industria tessile, si veda come la problematica in commento debba essere considerata duplice: essa, invero, ha tanto ad oggetto il tema dello smaltimento delle sostanze tossiche quanto quello della destinazione finale dei prodotti di scarto o di quelli non più utilizzati o, ancora, di quelli in esubero rispetto alla domanda. Concentrandoci su quest’ultimo aspetto – di attualissimo interesse visto che le sofferenze all’economia derivanti dal lockdown daranno il la a un’impennata considerevole dei prodotti invenduti – lo scenario che si prospetta, anche alla luce degli attuali usi in ambito di moda, è che la maggior parte dei prodotti non venduti in questi ultimi mesi verranno trasformati in rifiuti senza alcun tentativo di riconversione degli stessi.

Quest’ultima, peraltro, è stata spesso la scelta utilizzata strategicamente da molti big del settore, in tempi non sospetti, al fine di mantenere elevati i costi di vendita. Ma ad ogni modo, non solo le nostre abitudini di consumo rendono difficile il riciclo dei tessuti. Infatti, anche i materiali con i quali vengono confezionati gli abiti stessi – spesso composti da un mix di stoffe, fra cui ampio spazio è dato al poliestere – pare siano difficili da smaltire senza danni per l’ambiente.

 

Rivedere i processi per assicurare la corretta interazione fra il binomio salute e ambiente

Anche a fronte delle riflessioni che ha portato con sé la pandemia da Covid-19, il settore della moda pare finalmente aver trovato un’adeguata sensibilità al tema. Vi sono infatti i primi segnali da parte delle aziende del settore per indirizzare il proprio business verso un nuovo modello di economia circolare. Modello che deve iniziare con un nuovo passo sin dalla fase dell’approvvigionamento delle materie prime. Si dovranno, infatti, preferire le fibre naturali a quelle sintetiche che disperdono, anche solo con i lavaggi, enormi tonnellate di microplastiche. Diverranno cruciali anche i processi di monitoraggio dell’intera filiera, sicuramente da sensibilizzare e dotare di un sistema produttivo industriale all’avanguardia.

Infine, si dovrà agire sulla fase di fine vita del prodotto, per qualsiasi ragione essa intervenga. Seppellire o incenerire tonnellate di abiti ogni anno non può più essere la soluzione. Tali metodi – i cui effetti ormai non devono essere ulteriormente commentati – sono da ridurre al minimo e dovranno lasciare il posto a nuove abitudini: la riparazione, il recupero del materiale e il riciclo devono essere il nuovo diktat della moda. E benché tutto quanto passato in rassegna possa per molti ancora oggi apparire come un tema lontano da quello della tutela dei diritti, riteniamo che l’esperienza Covid-19 ci abbia, purtroppo, saputo dimostrare proprio il contrario: le scelte aziendali di oggi incideranno su uno dei nostri diritti fondamentali, il diritto alla salute.

E se l’uomo è l’ambiente in cui vive, come dicevamo all’inizio di questo approfondimento, non potrà essere che la preservazione del nostro habitat il cuore della nuova ricostruzione industriale a cui tutti saremo chiamati a partecipare, ognuno per la sua parte.

 

 

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