20 Settembre 2020

Riflessioni di un HR perplessa: come trovare i collaboratori giusti e tenerseli

VERONICA GAFFURI

Immagine dell'articolo: <span>Riflessioni di un HR perplessa: come trovare i collaboratori giusti e tenerseli </span>

Abstract

Nel mondo aziendale l’attenzione alle risorse umane, nel senso più ampio del termine, è ormai considerata un punto critico per il successo dell’organizzazione e spazia dalla selezione dei talenti alla retention alla valorizzazione delle diversità. Cosa può essere portato negli Studi legali e che valore può dare?

***

Lavoro nelle Risorse Umane da parecchio; poche aziende nella mia carriera, ma fortunatamente quelle con vocazione internazionale e che alle Risorse Umane tengono davvero. In un momento di riflessione, dopo tanti anni, tanti corsi, innumerevoli discussioni, tanto sentir parlare della centralità delle persone che fanno grandi le aziende, tanto tempo e sforzi impiegati per identificare, selezionare, valorizzare, promuovere, motivare, mi sono chiesta: ma siamo proprio sicuri che serva? Che alla fine l’azienda o l’organizzazione ne beneficino davvero? Probabilmente le persone che godono di maggiori benefit – nel senso più ampio del termine – vivono meglio e sono più soddisfatte, ma lavorano e producono di più e meglio? Restano più a lungo nell’organizzazione che le ha valorizzate e cresciute? La reputazione, anche dal punto di vista di chi ci lavora, ha un impatto sui risultati?

Una risposta definitiva di certo ancora non l’ho trovata, ma ho indizi positivi. Sono nel mondo legale da un anno; come quello aziendale, è variegato per dimensione, vocazione, cultura, valori, aree di competenza, ma ho maturato l’idea che alcuni dei temi citati sopra non siano stati frequentemente affrontati, vuoi anche per la natura spesso squisitamente libero-professionale delle relazioni. Credo però che due elementi possano far sì che anche lo studio legale decida di investire, diciamo per brevità, nell’HR.

  1. Il primo risiede nel valore che chi guida lo Studio attribuisce ai collaboratori in termini di rispetto personale, prima ancora che professionale. Di questo primo punto si può anche fare a meno, avendo il secondo, ma, diciamolo, agevola parecchio.
  2. Il secondo è che tirando la riga in fondo alla colonna, probabilmente conviene avere intorno a sé persone disposte a percorrere “the extra mile” (l’equivalente italiano che mi è venuto in mente, “buttare il cuore oltre l’ostacolo” ha un che di disperazione che non si addice alla situazione), a fare quello sforzo in più che viene certamente più facile ai collaboratori che si sentono, per dirla in aziendalese, “engaged”.

In pratica, gli stessi elementi che guidano le aziende.

Il fatto che il rapporto di collaborazione sia appunto nella maggior parte dei casi di libera professione, quindi con meno vincoli da entrambe le parti, accentua ancora di più l’importanza della scelta reciproca giornaliera.

Un cinico “do ut des” quindi? Ti tratto bene, così lavori di più e sei pure contento, per sintetizzare in modo un po’ brutale? Forse sì, ma in fondo tutte le relazioni sono uno scambio e questo mi pare tutto sommato nobile. Un classico win-win (per gli allergici agli inutili inglesismi, una situazione in cui traggono vantaggio entrambe le parti).

Fin qui quindi, il mio impatto con il mondo legale non è stato poi così traumatico; a dirla tutta le somiglianze (studio – azienda) sono più delle differenze e le persone, pur con modalità di lavoro proprie della professione, hanno gli stessi bisogni e aspirazioni (anche l’avvocato è un uomo – o, meglio ancora, una donna).

Ma come fare per avere, appunto, collaboratori engaged e un clima positivo? Agendo su moltissimi fronti, partendo da come inizia la collaborazione. Mi spiego meglio.

Avendo la certezza di essere in uno Studio dove il punto 1 di cui sopra è presente in abbondanza, mi sono sentita di proporre un’esperienza nuova – almeno per noi – in un campo dove qualche differenza l’avevo notata anch’io: la selezione, in particolare di praticanti (neolaureati).

Principali differenze rispetto alle esperienze passate:

  • abbondanza di candidati, generalmente interessati (vengo dal mondo IT dove la penuria di laureati in informatica o ingegneria rende la selezione dei neo un’attività pesantemente stressante anche per le grandi aziende dotate di brand, prestigio, soldi, benefit, formazione etc). Punto molto positivo;
  • collaborazione con le Università buona, ma migliorabile. Non tutte sono strutturate per agevolare il contatto;
  • predominanza del contatto diretto, in particolare delle segnalazioni.

Quest’ultimo punto soprattutto richiede qualche precisazione: le segnalazioni sono spesso utili e pure azzeccate (ovviamente non sono raccomandazioni, qui il do ut des non sarebbe granché nobile), ma accentua un approccio un po’ passivo da parte dello Studio (entro certi limiti, adatto le mie esigenze al fatto che ho ricevuto la segnalazione interessante) e favorisce un aspetto di valutazione (il giudizio positivo di un collega stimato per es.) a scapito di altri (criteri di valutazione generali che lo Studio decide di applicare, in particolare gli aspetti di soft skills che possono emergere da un CV e da approcci più strutturati), senza contare che, limitando la selezione ai pochi segnalati, si rischia di avere a che fare con un campione ristretto.

Abbiamo quindi deciso di provare un approccio forse poco applicato in ambito legale, cioè un assessment di gruppo. Mostro dalle molte teste, esiste in infinite varianti e spesso lascia ai candidati, soprattutto i più giovani, la sensazione di essere carne da macello il cui futuro dipende dal fatto di riuscire a mettersi in mostra a scapito degli altri, con grandissima frustrazione dei più timidi o semplicemente riflessivi. Ci siamo dati quindi alcuni macro-obiettivi:

  • avere maggiori elementi di valutazione sia in ambito “tecnico” (preparazione accademica, capacità di scrittura, inglese) sia in ambito soft skills (capacità di ascolto, di coinvolgimento degli altri, di gestione del tempo, adattamento alle situazioni sociali, etc)
  • ingaggiare tutti i candidati, facendogli vivere lo Studio per una giornata e consentendogli di apprezzarne l’atmosfera e la cultura attraverso le sue persone, perché la scelta sia consapevole da entrambe le parti
  • fargli percepire chiaramente che lo scopo è consentire a tutti di far emergere al meglio le proprie qualità, divertendosi, mettendosi alla prova e imparando qualcosa di nuovo (quantomeno, come affrontare un assessment di gruppo).

Effetto collaterale da raggiungere: far sì che tutti i candidati non scelti (la maggior parte, per ovvie ragioni) conservassero un’ottima opinione dello Studio, consapevoli che le strade si potranno incrociare di nuovo (da avvocati in altri Studi, come responsabili di aziende, chissà).

Le prime fasi:

  • sourcing: pubblicazione della ricerca sui canali universitari e sul sito di Studio
  • screening e primi colloqui telefonici con invito di 10 finalisti alla giornata di assessment, spiegata bene.

Infine, la giornata:

  • benvenuto con caffè e biscotti
  • presentazione dello Studio da parte di uno dei soci
  • presentazione dei candidati
  • lavoro/gioco di gruppo
  • esercizi legali
  • pranzo con praticanti e collaboratori dello Studio
  • test di inglese
  • breve colloquio individuale

Un questionario di personalità era previsto, ma non è stato possibile inserirlo per difficoltà tecniche (personalmente lo raccomando).

I risultati?

Il candidato inserito è quello che sembrava emergere meno, ma che ha dimostrato di avere le caratteristiche che in questo momento servono allo Studio in termini di preparazione, interessi e modalità di lavoro e che meglio si sarebbe inserito nel gruppo. Non meno importante, tutti i candidati hanno dichiarato soddisfazione per il modo in cui si sono sentiti valutati; infatti abbiamo mantenuto i contatti con alcuni altri buoni candidati e ne abbiamo inserito un’altra in un secondo momento.

Infine, tutti i colleghi coinvolti nella giornata (due avvocati) e nel pranzo con i ragazzi (tutti) sono stati orgogliosi di rappresentare lo Studio.

Altri Talks