11 Giugno 2019

Bancarotta: illegittimità costituzionale delle pene accessorie in misura fissa.

VALERIO ROCHIRA

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Abstract

La Corte Costituzionale - con la sentenza n. 222/2018 depositata il 5 dicembre 2018 - ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, della c.d. Legge Fallimentare, il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942, nella parte in cui disponeva l’automatismo applicativo della pena accessoria di 10 anni di inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale ovvero di incapacità, per la stessa durata, ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, così modificandolo: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa  fino a dieci anni».

Tale pronuncia è intervenuta incidenter tantum - a seguito di ordinanza di rimessione della prima sezione penale della Corte di Cassazione - nel giudizio di legittimità per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Bologna che, in qualità di giudice del rinvio, aveva condannato alcuni protagonisti del c.d. Crack Parmalat, per aver commesso vari delitti di bancarotta di cui agli artt. 216 e 223 L.F.

In particolare, la portata innovativa della decisione della Corte delle leggi consiste nell’aver ribadito che, alla luce della funzione special-preventiva e dunque rieducativa della pena, il quadro edittale deve necessariamente essere informato al principio di proporzionalità costituzionale, di guisa che l’automatismo applicativo del trattamento accessorio risulta, in tal senso, irragionevole, necessitandosi un proporzionato sacrificio di interessi per il reo perché possa rieducarsi.

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Gli effetti della pronuncia nel dibattito giurisprudenziale. Dosimetria della pena accessoria in conformità ai principi costituzionali.

La sentenza de qua può essere inquadrata come una pronuncia manipolativa a contenuto sostitutivo che si inscrive coerentemente in un ben definito orientamento della Giurisprudenza costituzionale, teso a garantire la proporzione tra il reato e la pena, nel rispetto del principio di ragionevolezza. Ebbene, la conclusione a cui giungono i Giudici della Consulta nel caso di specie (C.Cost. 222/2018) è quella di ricondurre a ragionevolezza il quadro edittale accessorio dell’ultimo comma degli artt. 216 e 223 L.F., manipolandone il contenuto con l’addizione della dicitura “fino a…”. Sostituendo pertanto la previsione in misura fissa con un trattamento flessibile, non resta che determinare come sia possibile addivenire per il giudicante al corretto quantum sanzionatorio caso per caso.

Le modalità di dosimetria maggiormente rilevanti sono due: la prima è costituita dall’adeguamento della pena accessoria alla pena principale ex art. 37 c.p.; la seconda invece sottolinea, più coerentemente con i canoni costituzionali, la necessità di subordinare la determinazione al sindacato discrezionale di cui all’art. 133 c.p., in tal guisa consentendo al giudice di intervenire con l’idoneo trattamento accessorio volta per volta, in ossequio alle esigenze special-preventive e rieducative.

Su tale problematica, però, si sono susseguiti non pochi contrasti tra la Giurisprudenza della V sezione penale all’indomani della citata sentenza della Corte Costituzionale. Tale contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite all’udienza del 28 febbraio 2019 che, pur non avendo ancora depositato le motivazioni della Sentenza, hanno risposto al quesito optando per la soluzione maggiormente conforme alla funzione rieducativa della pena, così stabilendo che: “Le pene accessorie previste dall'art. 216 legge fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, cosi come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen.

 

Osservazioni finali. Risvolti pratici delle pronunce analizzate. Critiche ai nuovi interventi dell’attuale legislatore.

Sebbene la tematica in rassegna sembri essere connotata di eccessivi tecnicismi dogmatici, essa non è avulsa da risvolti pratici immediati che riguardano direttamente la sfera di interessi costituzionalmente garantiti di cui il reo è portatore.

È di facile intuizione per gli addetti ai lavori cogliere la portata pratica di tale arresto Giurisprudenziale, in quanto per tutti i procedimenti pendenti dinanzi alla Suprema Corte, questa dovrà, d’ora in avanti, essere chiamata ad annullare la sentenza della Corte d’Appello e rinviare al Giudice del merito affinché possa rideterminare la pena accessoria da comminarsi in concreto. Inoltre, anche per chi fosse stato condannato con sentenza passata in giudicato, si aprono spiragli di rideterminazione in melius della misura di pena accessoria irrogata, perché potrà adirsi il Giudice dell’Esecuzione, affinché riconduca alla legalità costituzionale il quantum sanzionatorio.

Con la pronuncia che si segnala, la Corte Costituzionale ha manifestamente espresso la necessità di revisione del quadro edittale accessorio, poiché, soprattutto la sanzione accessoria, è chiamata a svolgere funzioni special-preventive, da un lato tese alla repressione delle condotte economiche criminali attraverso la neutralizzazione potenziale del reo, dall’altro dirette a rieducare il destinatario della sanzione, consentendogli il proficuo reinserimento nella società.

            Ebbene, ciò che emerge tra le righe è che il “criminale economico”, solitamente rappresentato dall’imprenditore, non può essere oggetto di inutili vessazioni che si protraggono anche oltre il periodo di scomputo della pena principale. Laddove egli sia stato condannato, ad esempio, a tre anni di reclusione, la pena accessoria interdittiva è manifestamente infondato che perduri sino al limite di 10 anni, poiché durante tale così lungo periodo verrebbero irragionevolmente compressi i diritti al lavoro e alla libera iniziativa economica costituzionalmente garantiti.

 Il principio di rieducazione della pena, dunque, perché possa trovare concreta attuazione, deve consistere nel comminare la giusta misura sanzionatoria che si confaccia al fatto commesso e alla personalità del reo. Una pena sproporzionata non si conforma ai canoni rieducativi, anzi, sovente importa derive criminali.

            Incidentalmente, però, non si può non notare che, sebbene la Giurisprudenza, soprattutto della Corte Costituzionale, abbia palesato la necessità di ridisegnare il quadro sanzionatorio all’interno del sistema, al fine di renderlo maggiormente idoneo ai principi costituzionali richiamati, l’attuale legislatore ha invece mostrato di essere “sordo e cieco” dinanzi ai numerosi spunti offerti sul punto anche dagli studiosi.

Basti pensare alla recente novella c.d. “spazza corrotti” con cui il governo, carico di rivoluzionari intenti pedagogici, ha fortemente inasprito il quadro sanzionatorio accessorio in materia di delitti contro la pubblica amministrazione (id est, trattasi pur sempre di criminalità economica). 

Nell’era in cui la Consulta e la Suprema Corte di Cassazione dichiarano illegittime le misure fisse di pena accessoria, perché irragionevolmente incompatibili con i principi cardine della Costituzione, il nuovo legislatore estende a spada tratta l’applicabilità di misure interdittive perpetue, potenzialmente immuni da qualsivoglia sospensione condizionale o rieducazione effettiva anche del soggetto affidato in prova ai servizi sociali.

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