30 Dicembre 2019

La Corte Europea dei diritti dell’uomo dice sì alle telecamere nascoste, ma il Garante privacy mette subito i paletti

SOFIA BARGELLINI

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Abstract

La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 17 ottobre scorso pronunciata sui ricorsi 1874/13 e 8567/13, ha pubblicato una sentenza potenzialmente rivoluzionaria nell’ambito dei controlli a distanza dei lavoratori. La Corte ha, infatti, dichiarato legittime le telecamere nascoste, posizionate dal datore di lavoro ad insaputa dei propri dipendenti, che avevano aiutato a smascherare gli autori di furti, poi tutti licenziati.

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La sentenza così pronunciata trae origine dai ricorsi di alcuni ex dipendenti di un supermercato spagnolo, che lamentavano di essere stati licenziati sulla base di alcune riprese video effettuate da telecamere nascoste, che erano state illegittimamente installate dall’ormai ex datore di lavoro.

Il commerciante spagnolo aveva infatti deciso di introdurre delle telecamere a circuito chiuso nel proprio supermercato, a fronte di alcune irregolarità tra stock di magazzino e vendite che avevano fatto registrare al negozio ingenti perdite negli incassi degli ultimi mesi.

A fronte di tali irregolarità, il negoziante spagnolo, insospettito che potesse trattarsi di furti commessi dai propri dipendenti, aveva deciso di ricorrere a telecamere nascoste con l’intento di capire chi fosse l’autore dei furti.

Pertanto, il datore di lavoro spagnolo era intervenuto con una misura alquanto drastica per riuscire a capire chi stesse continuamente sottraendo denaro dalla cassa aziendale.

Per essere legittimato a fare ciò, tuttavia, l’imprenditore spagnolo avrebbe dovuto, senza ombra di dubbio, informare preventivamente i suoi dipendenti sulla sorveglianza da lui effettuata. Non avendolo fatto, il datore di lavoro si era mosso in contravvenzione delle regole relative al controllo a distanza dei lavoratori e al rispetto della privacy dei propri dipendenti.

Va ricordato che l’obbligo di informativa sussiste anche nell’ambito del diritto italiano, dove – ai sensi dell’art. 4 St. Lav. – le informazioni raccolte tramite impianti di videosorveglianza possono essere utilizzate dal datore di lavoro per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro – e dunque anche per licenziare dipendenti sorpresi a rubare – purché sia stata data adeguata informativa ai lavoratori.

Ma – per precisione – l’informativa data ai dipendenti non risulta, almeno in Italia, affatto sufficiente.

Il nostro legislatore ha, infatti, previsto che i datori di lavoro italiani possano procedere ad installare telecamere, da cui possa derivare anche un controllo a distanza dei dipendenti, solamente se:

  1. Sussiste, nel caso concreto, una delle esigenze espressamente indicate dall’art. 4, ovvero esigenze organizzative e produttive, esigenze di sicurezza del lavoro o esigenze di tutela del patrimonio aziendale, e
  2. Si ottiene un preventivo accordo con le RSA/RSU presenti in azienda (o con le associazioni sindacali maggiormente rappresentative se si tratta di aziende ubicate in più province o regioni), ovvero, in mancanza di accordo, una preventiva autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro territorialmente competente.

Ebbene, nel caso di specie, sebbene vi fosse stata una violazione della normativa sui controlli a distanza e della normativa sulla privacy da parte del negoziante spagnolo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha comunque ritenuto che i diritti dei lavoratori non fossero stati violati.

La Corte di Giustizia ha infatti ritenuto di dover operare un necessario bilanciamento tra i diritti dei dipendenti (a non essere controllati dal datore di lavoro e a non essere ripresi a loro insaputa) e il diritto alla salvaguardia dei beni aziendali da parte dell’imprenditore, sostenendo – in particolare – che la mancata informativa data ai dipendenti da parte del negoziante spagnolo dovesse ritenersi giustificata dal ragionevole sospetto che si fossero verificati dei furti nel luogo di lavoro.

Alla luce di ciò, la sentenza qui esaminata, sebbene molto suggestiva nella massima, risulta essere nei fatti molto poco rivoluzionaria, se ben si analizzano tutti i presupposti che in quel caso sussistevano.

La videosorveglianza nascosta era, infatti, non solo l’unica misura possibile per riuscire a sventare i furti, ma era anche una misura estremamente limitata in termini di tempo di esposizione dei lavoratori e di spazio soggetto alla ripresa.

Pertanto, difficilmente si potrebbe sostenere che la sentenza qui in oggetto possa essere fautrice di un cambiamento della normativa in materia di controlli a distanza.

A conferma di ciò, in Italia è subito intervenuto il Garante della Privacy che ha voluto calmare gli animi e riportare tutti gli imprenditori sulla retta via.

Il Garante ha precisato, infatti, che “la videosorveglianza deve essere intesa solo in quanto “extrema ratio” a fronte di gravi illeciti e con modalità spazio-temporali tali da limitare al massimo l’incidenza del controllo sul lavoratore”.

Non possiamo quindi ritenere che la pronuncia della Corte europea rappresenti un lascia passare per gli imprenditori europei che vogliano installare telecamere nascoste sulla scia di quanto fatto dal commerciante spagnolo.

Il caso che ha portato alla pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo è, infatti, caratterizzato da due presupposti molto importanti e che ci consentono di dire che non è stato espresso alcun principio rivoluzionario rispetto alla normativa già in vigore:

  • il primo presupposto è che le telecamere sono state installate solamente dopo che era sorto il fondato sospetto di furti, e
  • il secondo presupposto è che le riprese video sono state utilizzate solo e soltanto per la prova dei furti commessi.

Resta comunque innegabile è il fatto che, sebbene la sentenza non abbia portata rivoluzionaria non intendendo aprire alla possibilità di ripresa indiscriminata sul luogo di lavoro, con tale pronuncia la Corte ha però voluto lanciare un segnale importante: il bilanciamento tra gli interessi in gioco può di fatto, in alcuni casi – per vero, molto gravi – anche propendere per la tutela dei beni aziendali e, quindi, dalla parte dell’imprenditore.

 

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