12 Giugno 2020

COVID-19 e “nuova” imprenditoria: gli effetti della pandemia sulle attività commerciali

LUIGI PARENTI

Immagine dell'articolo: <span>COVID-19 e “nuova” imprenditoria: gli effetti della pandemia sulle attività commerciali</span>

Abstract

                               Aggiornato al 11.06.2020

L’emergenza COVID-19, come è noto, ha riverberato i propri effetti non soltanto nell’ambito sanitario. Difatti, sono stati molti gli ambiti socio-economici che hanno subito le conseguenze negative della pandemia. Pertanto, piccoli esercenti ed imprenditori (soprattutto nell’ambito della ristorazione e del commercio al dettaglio) hanno dovuto sopperire ai riflessi pregiudizievoli ingenerati dal forzato lockdown adeguando le proprie attività ai nuovi modelli e protocolli che l’emergenza sanitaria ha imposto e, in taluni casi, modificando la modalità di esercizio della propria attività, come previsto dal DPCM 11/03/2020.

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Ed invero, dopo l’iniziale blocco delle attività considerate “non essenziali” (in base al codice Ateco associato alle stesse) sancito dal DPCM 11/03/2020, con il DPCM  26/04/2020 (e successivi) il Governo ha invertito la “rotta” in materia, consentendo la riapertura degli esercizi commerciali -nel rispetto delle indicazioni contenute nel Rapporto ISS COVID-19 n. 17/2020- seppur in maniera graduale e secondo nuove imposizioni legislative.

Orbene, stante la riapertura delle attività commerciali, la maggior parte dei commercianti al dettaglio si è dovuta conformare agli obblighi imposti dalla normativa cogente in materia, contemperando gli obblighi nazionali con le previsioni regionali di dettaglio, quali -tra i molti-quelli sull’uso obbligatorio di mascherine e guanti per i clienti, quelli inerenti gli ingressi contingentati e la misurazione di temperatura dei clienti, quelli di areazione e pulizia dei locali commerciali aperti al pubblico. Regole che, nonostante la relativa prossimità della loro introduzione, sono diventate ormai d’uso comune per commercianti e consumatori.

 

Nuove modalità di commercio

Il summenzionato DPCM 11/03/2020 ha introdotto molteplici nuove modalità attraverso le quali i commercianti hanno potuto continuare ad esercitare le proprie attività: vendite on-line, consegne a domicilio di vivande e prodotti agricoli freschi. Per molte di queste ultime attività, sembrerebbe non essere prevista la presentazione di una s.c.i.a. (giacché l’abilitazione del commercio nei locali dell’esercizio consente automaticamente anche il commercio a distanza), ma semplicemente l’aggiornamento del codice Ateco per il commercio a distanza nel Registro delle imprese.

In particolare, è nel settore agroalimentare e ristorativo che le norme ordinarie ed emergenziali, tuttora, impongono un grado di particolare attenzione a tutti gli operatori della filiera. Le associazioni di settore (quali, a titolo esemplificativo AssoDelivery e FIPE) hanno, fin dagli esordi dell’emergenza, provveduto a redigere dei documenti contenenti le “linee-guida” in materia.

Sebbene ciascuna Regione -come anticipato- ha predisposto adempimenti ad hoc in tali ambiti, si possono trarre delle direttrici generali, che si inseriscono nel novero delle procedure di autocontrollo incombenti su tutti gli operatori della filiera agroalimentare, mangimistica e dei MOCA (Materiali e Oggetti a Contatto con gli Alimenti). Come è noto, infatti, gli operatori dei summenzionati settori già soggiacciono agli obblighi provenienti dal Regolamento CE 852/2004, cd. “Regolamento HACCP” (nonché a quanto previsto dalla norma Uni En Iso 22000:2500) ed a quelli riguardanti la Good Higyene Practice (GHP).

Ad esempio è proprio in materia di Hazard Analysis and Critical Control Point (HACCP) che si inserisce il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 14 Marzo 2020, alla luce del quale oggi incombe l’obbligo per il datore di lavoro di aggiornare l’autocertificazione in materia, considerando specificatamente il rischio da infezione SARS-CoV-2.

Il food delivery, ovviamente, non è esente dal rispetto degli obblighi generali esposti in precedenza. Anche gli operatori addetti alla consegna del cibo devono essere dotati dei dispositivi di protezione individuale (DPI) e rispettare le norme igienico-sanitarie previste dalla legislazione, nonché evitare la riduzione della distanza interpersonale al di sotto di un metro.

Il cibo che viene inviato al domicilio dei consumatori, al pari di quello che viene fornito mediante il servizio di asporto (cd. take-away), deve essere confezionato in un packaging monouso, ermeticamente chiuso. Dopo la consegna al fattorino, esso deve essere riposto immediatamente negli zaini termici o nei contenitori per il trasporto, che devono essere mantenuti puliti con prodotti igienizzanti, monitorando la temperatura degli stessi al fine di non alterarne le proprietà.

 

Risvolti fiscali e contabili

Il food delivery ha dei risvolti tipici anche sul piano fiscale e contabile, sia per quanto riguarda i soggetti che svolgono queste attività, sia per le imposte che possono essere applicate sui prodotti di riferimento.

I “rider” che si occupano della consegna a domicilio del cibo possono, sulla base della legislazione vigente e nei limiti massimi annuali di riferimento, aderire -sul piano fiscale- al regime forfettario.

Tra gli ambiti che hanno suscitato maggior attenzione, c’è, infine, la questione che riguarda l’applicazione dell’IVA alle consegne effettuate a domicilio. E, infatti, la normativa in materia distingue le ipotesi di “somministrazione” del cibo, che soggiace ad un’aliquota del 10%, da quelle di “cessione” del medesimo, che invece applicano l’aliquota sulla base del prodotto venduto. Dunque, ad esempio, in un unico ordine di bevande e cibo, soltanto quest’ultimo soggiacerà all’aliquota del 10% e non l’intero ordine.

 

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