04 Febbraio 2019

La figura dell’agente sotto copertura nei reati di corruzione. Profili di criticità

MATTEO MANGIA

Immagine dell'articolo: <span>La figura dell’agente sotto copertura nei reati di corruzione. Profili di criticità</span>

Abstract

Il presente contributo analizza in modo critico la scelta, ad opera della legge di recente approvazione c.d. “spazza corrotti”, di estendere la disciplina prevista per gli agenti sotto copertura anche alle indagini riguardanti alcuni dei reati contro la Pubblica Amministrazione.

***

Che la lotta alla corruzione sia un argomento tanto rilevante quanto delicato sotto diversi profili non pare revocabile in dubbio. Trattandosi, peraltro, di fattispecie che vede il coinvolgimento della pubblica funzione nell’attività illecita, la questione assume una rilevanza oltreché giuridica, anche politica e sociale.

Nonostante qualche flebile segnale positivo emerso in seguito all’istituzione dell’ANAC[1] e all’introduzione della c.d. “Legge Severino[2], il fenomeno corruttivo risulta purtroppo ancora largamente diffuso sul territorio nazionale[3], segno probabilmente di una scarsa efficacia general-preventiva della fattispecie incriminatrice e delle tecniche investigative deputate a farne emergere le dinamiche. La conseguenza è la notevole incidenza negativa cagionata allo sviluppo economico del Paese e stimata in circa 60 mld di euro l’anno[4].

Ed è in questo contesto che il ddl “Misure per il contrasto dei reati contro la PA[5], eloquentemente ribattezzato “legge spazza corrotti”, si prefigge – al pari di quasi tutti i legislatori succedutisi negli anni più recenti – l’ambizioso compito di contrastare energicamente l’annosa questione emendandone ancora una volta la disciplina.

La modifica più discussa, non destando particolare preoccupazione l’inasprimento delle pene accessorie[6], appare senz’altro la scelta di ampliare ai reati di corruzione (e fattispecie contigue) la vigente disciplina delle operazioni sotto copertura[7].

Viene invero estesa anche a tali reati[8] la speciale clausola di non punibilità prevista per la figura dell’agente infiltrato che abbia posto in essere la condotta illecita nell’ambito dell’attività investigativa sotto copertura.

La riforma incide peraltro sul novero delle condotte scriminate, prevedendo che l’acquisto, la ricezione, la sostituzione o l’occultamento possano riguardare anche “altre utilità” (oltreché ad armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope e altri beni) e riferirsi pure all’accettazione dell’offerta o alla promessa del “prezzo del reato” (e, non solo, all’oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commetterlo). È reso altresì lecito corrispondere o promettere denaro o altre utilità (i) in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri; (ii) se richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio ovvero (iii) quale prezzo della mediazione illecita di tali soggetti.

Le perplessità relative a tale scelta, alcune delle quali sorte peraltro già in sede di discussione assembleare[9], attengono ad un duplice ordine di ragioni. La prima riguarda il pericoloso e concreto rischio, per via delle peculiarità dei reati corruttivi, di sconfinamento della figura dell’agente sotto copertura in quella contigua ma inammissibile dell’agente provocatore[10]: ciò, quando quest’ultimo, anziché limitarsi all’acquisizione di elementi di prova relativi a reati già posti in essere, ne istighi di fatto la commissione. Con l’ulteriore conseguenza che, senza il suo contributo, il reato non sarebbe stato integrato. La seconda emergerebbe invece nei risvolti più prettamente pratici derivanti da siffatta previsione.

Con riguardo alla prima considerazione, si noti come la Corte EDU ritenga violato il principio dell’equo processo quando l’attività investigativa sotto copertura sfoci in quella del c.d. agente provocatore. I giudici di Strasburgo[11], da un punto di vista processuale, hanno infatti ritenuto contraria all’art. 6 CEDU la sentenza di condanna fondata in maniera esclusiva sulle dichiarazioni degli agenti provocatori, senza che alcun ulteriore dato probatorio indicasse che, in assenza del loro apporto, l’attività criminale si sarebbe comunque realizzata.

Anche la Suprema Corte ha più volte ribadito l’inammissibilità della figura dell’agente provocatore, ritenendo illecite le operazioni che si concretizzino in un incitamento o in un’induzione al crimine del soggetto, ovvero che si inseriscano nell’iter criminis senza rimanerne a margine (ex multis Cass. Sez. V, 21/05/2018, n. 35792 e Cass. Sez. VI, 11/12/2014, n. 51678).

Simili obiezioni sono state recentemente mosse anche da autorevole dottrina[12], espressasi nel senso di ritenere che saggiare la moralità dei destinatari della proposta corruttiva non sia rispettoso dei crismi propri del diritto penale, il cui scopo è di punire soggetti che abbiano commesso un reato e non di dimostrarne la propensione al crimine[13].

Insomma, se non vi sono dubbi circa l’illiceità dell’agente provocatore, ciò che viene a gran voce richiesto a livello pratico è una netta linea di demarcazione tra le due figure, in modo da garantire che l’assunzione delle prove non sia lesiva dei diritti fondamentali dell’imputato. Tale arduo compito sarà demandato in modo concorrente sia alla polizia giudiziaria, nel delineare con precisione le operazioni autorizzate ai sensi del comma 1-bis della L. 146/2006, sia alla magistratura, cui spetta il vaglio processuale sull’ammissibilità delle evidenze acquisite. Paradossale sarebbe, invero, l’effetto di rendere inutilizzabili le prove raccolte, cui parrebbe poter conseguire persino l’eventuale responsabilità penale dell’istigatore, a titolo di concorso nel reato.

Sebbene, infatti, le operazioni sotto copertura si siano dimostrate utili nell’ambito di indagini aventi ad oggetto organizzazioni criminali ben strutturate, radicate nel territorio e durevoli nel tempo, l’efficacia di tali tecniche investigative lascia forti dubbi se trasposta  alle contingenze proprie dei reati corruttivi, spesso commessi nel corso di rapporti bilaterali ed in un contesto che – a differenza di quello proprio della criminalità organizzata – non si caratterizza per essere fisiologicamente criminale, bensì “occasionale”[14].

Appare particolarmente arduo, in questo senso, distinguere tra la condotta corruttiva che il soggetto abbia posto in essere per sua iniziativa, da quella cagionata dall’agente sotto copertura. Ancor più difficile, peraltro, sembra essere la prova (diabolica) che il reato in contestazione si sarebbe verificato a prescindere da quel particolare incipit.

Non solo. Nelle ipotesi di corruzione, l’attività dell’infiltrato dovrebbe arrivare a presupporre un’expertise tecnica dell’agente sotto copertura, nonché una struttura imprenditoriale ad hoc che garantisca la credibilità dell’operazione e che, nondimeno, andrebbe di volta in volta riadattata al variare del contesto corruttivo.

In conclusione, non appare del tutto chiaro come la figura dell’agente sotto copertura possa essere davvero efficace nella lotta ai reati contro la P.A.; la riforma, inoltre, neppure sembrerebbe fornire strumenti idonei ad accertare, da un punto di vista giuridico, la liceità di tali operazioni, rischiando perciò di provocare effetti controproducenti.

Di fatto, nonostante le elevate aspettative politiche riposte nella riforma, pare eloquente la posizione del Presidente ANAC, Raffaele Cantone, secondo cui “le proprietà “taumaturgiche” attribuite al ddl rischiano tuttavia di sovraccaricare il provvedimento di previsioni eccessive[15].

 

 

Altri Talks