02 Novembre 2020

Il nuovo abuso d’ufficio: una Linea Maginot a tutela della discrezionalità amministrativa

GIOVANNI BRIOLA

Immagine dell'articolo: <span>Il nuovo abuso d’ufficio: una Linea Maginot a tutela della discrezionalità amministrativa </span>

Abstract

Un’analisi della nuova formulazione dell’art. 323 c.p. dopo l’intervento del c.d. decreto semplificazioni cui segue un commento critico sugli effetti politico-criminali portati da questa strutturale trasformazione.

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La nuova disciplina dell’abuso d’ufficio

Con il dichiarato intento di rendere più semplice e maggiormente efficiente l’agire amministrativo, lo scorso luglio il Governo ha emanato il c.d. decreto semplificazioni (D.L. n. 76/2020), successivamente convertito dalla legge n. 120/2020.

In ambito penale siffatta finalità è stata perseguita attraverso la modifica della disciplina sull’abuso d’ufficio, delitto oggetto di una travagliata evoluzione normativa.

Ciò è dovuto, in particolare, al ruolo sistematico ritagliatogli dal legislatore di norma di chiusura dei reati contro la pubblica amministrazione.

La versione originaria dell’art. 323 c.p. è stata modificata in altre tre occasioni: nel 1990, nel 1997 e nel 2012. L’essenza della previsione incriminatrice antecedente al decreto semplificazioni risale in particolare al 1997: il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio oggetto di sanzione consisteva nel procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero arrecare a terzi un danno ingiusto, o svolgendo le proprie funzioni oppure omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un congiunto o negli altri casi prescritti.

Ebbene, la recente riforma ha riguardato esclusivamente la condotta commissiva. Questa, prima caratterizzata dallo svolgimento delle funzioni pubbliche in violazione “di norme di legge o di regolamento”, viene adesso relegata al mancato rispetto “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

È di tutta evidenza come il legislatore abbia deciso di operare una ben delineata abolitio criminis parziale, rendendo non più punibili le condotte integranti la violazione di norme di regolamento e di norme di legge da cui non sono ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse e che non lasciano margini di discrezionalità in capo alla Pubblica Amministrazione.

 

Dal rigore del 2012 e del 2019 al garantismo del 2020: qualcosa non quadra

Trattasi, evidentemente, di una rivoluzione copernicana.

Ciò non solo in ragione del considerevole restringimento dell’area delle condotte punibili appena sintetizzato ma anche, e soprattutto, a causa del profondo cambio di rotta nella scelta politico-criminale: dal rigore punitivo della legge 190/2012, passando per l’indiretta influenza della legge Spazzacorrotti del gennaio 2019, si è giunti ad una previsione profondamente garantistica.

Questo cambiamento tanto radicale quanto repentino di prospettiva si può parzialmente giustificare con l’intrinseca difficoltà di trovare un equilibrio accettabile fra una criminalizzazione ad ampio raggio, tipica di tutte le norme di chiusura, ed il rispetto del principio di tipicità e di divisione dei poteri.

Il primo intento verrebbe perseguito con una legiferazione penale omnicomprensiva di tutti i comportamenti che recano un pregiudizio alla cosa pubblica, il secondo tramite una scrittura della norma pienamente in linea con i principi di determinatezza e precisione.

Se la prima soluzione porterebbe con sé un eccesso di interventismo delle Procure sull’operato della pubblica amministrazione, con buona pace sia del principio di divisione dei poteri che di quello di relatività del diritto penale, la seconda rischierebbe invece di limitare eccessivamente il controllo del potere giudiziario su quello politico-amministrativo.

Ma l’equilibrio fra le due esigenze è assai difficile da ottenere e, a ben vedere, la coperta sembra essere troppo corta.

Gli interventi del legislatore hanno palesato tale difficoltà: se nel 1997 e poi nel 2012 si è mostrato interesse per un maggiore rigore punitivo, con l’ultima novella si è invece optato per un laissez faire che pare francamente eccessivo.

È vero, il Decreto Semplificazioni necessita di essere giudicato nel contesto sociale e burocratico della pandemia globale di Coronavirus: c’era bisogno di semplificare l’agire pubblico garantendo quanto più possibile la discrezionalità amministrativa.

Si è ritenuto che tale via fosse perseguibile attraverso lo sgravio, per il personale amministrativo, della quasi totalità dei rischi penali ad esso correlati.

A chi scrive sembra, tuttavia, che l’abolitio criminis in esame possa creare da un lato delle pericolose sacche di impunità e, dall’altro, un ancor più grave rischio di confusione applicativa dell’art. 323 c.p. proprio al fine di evitare il rischio di lasciare certe condotte impunite.

In particolare, pare condivisibile la severa circoscrizione delle condotte rilevanti ex lege imponendone il carattere di specificità e l’assenza di margini di discrezionalità.

Del tutto ingiustificata, invece, la decisione di escludere la rilevanza della normativa di secondo grado. Sono perlopiù i regolamenti, infatti, a dettare regole comportamentali la cui violazione sarebbe dovuta rimanere ad appannaggio della valutazione del giudice penale in nome del primario interesse del buon andamento della pubblica amministrazione.

 

Il presente articolo è stato redatto con la collaborazione dell'Avv. Eugenio Cucchiella, avvocato presso lo Studio Legale Briola 

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