23 Aprile 2018

Reati tributari e sequestro: la responsabilità non esclusiva del legale rappresentante

CHIARA LANGÈ

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Abstract

L’assenza dei reati tributari nel novero dei c.d. reati-presupposto di cui al D.Lgs. 231/2001 ha indotto gli organi giudiziari ad imputare personalmente agli amministratori delle società le violazioni penal-tributarie, ricorrendo alla misura del sequestro preventivo finalizzato alla confisca.  

Il tema della prevenzione penal-tributaria, quindi, assume per gli amministratori un carattere di urgenza e necessità, affinché essi non si vedano costretti a rispondere sia penalmente che economicamente a violazioni commesse nel contesto aziendale.

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Il quadro normativo

Il sequestro preventivo a fini di confisca è disciplinato dall’art. 321 co. 2 c.p.p. a norma del quale il giudice “può disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca” ex art. 240 c.p.. Per i beni confiscabili, infatti, la pericolosità è in re ipsa in quanto il periculum coincide con la “confiscabilità del bene”.

Come noto, la confisca si distingue in “diretta” o “per equivalente” a seconda che sia possibile o meno individuare i beni di immediata derivazione dal fatto di reato.

In tema di reati tributari, l’istituto della confisca è stato introdotto inizialmente dall’art. 1 comma 143 L. 244/2007 (“Finanziaria 2008”), tramite il rinvio all’art. 322 ter del c.p., ed in seguito dal D.Lgs. 158/2015, che ha inserito all’interno del D.Lgs. 74/00 l’art. 12 bis, il quale al comma 1 riproduce la disposizione precedente.

In particolare, in materia tributaria, il profitto di reato confiscabile è costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale tratto dalla realizzazione del reato e può consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento di un tributo.

La giurisprudenza della Suprema Corte

L’estensione dell’applicabilità della confisca (e quindi del sequestro preventivo) ai reati tributari ha generato un annoso dibattito giurisprudenziale con riferimento all’ipotesi in cui l’autore del delitto sia il legale rappresentante di una persona giuridica. Ciò in quanto in tali casi l’applicabilità della confisca incontra un limite nell’irriducibilità della prova del rapporto di pertinenzialità intercorrente tra profitto e reato.

Pietra miliare nel panorama giurisprudenziale è la presa di posizione delle Sezioni Unite nella sentenza Gubert (Cass. pen. SS.UU. n. 10561 del 2014), che ha ammesso l’esperibilità nei confronti della persona giuridica del solo sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta di importi in denaro, altri beni fungibili o beni tutti eziologicamente riconducibili al profitto del reato tributario. Nella medesima pronuncia è stata riconosciuta la possibilità di adottare la misura cautelare reale ai fini della confisca per equivalente esclusivamente nelle ipotesi di a) società c.d. di comodo o incapienti, nonché b) qualora, al momento in cui viene chiesta e adottata la misura, il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile o ancora c) i beni costituenti il profitto del reato non siano aggredibili per qualsiasi ragione.

La sentenza Gubert è stata ripresa in più occasioni dalla Sezione III della Suprema Corte, che ne ha specificato i principi di diritto enunciati. In particolare, i giudici di legittimità hanno puntualizzato che l’applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta sul patrimonio personale di un consigliere di amministrazione di società di capitali è legittimo se l’Organo giudicante ha preventivamente vagliato la possibilità di escutere il patrimonio dell’ente verificandone la capienza (Cass. pen. Sez. III, 11/04/2017, n. 37137). Si tratta di una valutazione “allo stato degli atti” in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato (Cass. pen. Sez. III, 12/07/2017, n. 45552).

Recentemente, infine, la Corte di Cassazione (Cass. pen. Sez. III n. 2471/2018) ha ritenuto legittimo un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per la somma corrispondente al profitto del reato nei confronti dei consiglieri. Secondo la Corte, questi ultimi rispondono in proprio della violazione dell’obbligo di versamento e non quali garanti dell’adempimento (ex art. 40 cpv. c.p.) del legale rappresentante della società. L’eventuale ripartizione interna al consiglio di amministrazione delle competenze ha solo natura meramente organizzativa e non limita la capacità del singolo amministratore di adempiere ad atti di ordinaria amministrazione di qualsiasi genere, a maggior ragione se (come nel caso di specie) al medesimo non viene conferita alcuna specifica delega in ambito tributario.   

La gestione del rischio fiscale in azienda: la prevenzione dei reati tributari

Per evitare le gravose conseguenze che le anomalie fiscali comportano in termini sia patrimoniali che reputazionali – da un lato in relazione a sanzioni emesse dall’Amministrazione Finanziaria e dall’altro a seguito del coinvolgimento in procedimenti penali (come nel caso di applicazione di una misura cautelare reale) – in capo alle aziende, si rende necessario per le stesse provvedere a implementare i modelli organizzativi ed adottare nuovi sistemi di controllo (c.d. tax control framework) che assicurino una corretta gestione del rischio fiscale.

Il nostro Legislatore, adeguandosi a quanto già vigente in altri Paesi e alle Linee Guida dell’Ocse, con l’art. 6 della Legge delega 23/2014 ha espressamente previsto che, al fine di promuovere nuove forme di cooperazione tra le autorità fiscali ispirate ai principi di correttezza e di trasparenza, le imprese di maggiori dimensioni debbano adottare “sistemi aziendali strutturati di gestione e di controllo del rischio fiscale (c.d. “Tax Control Framework”), con una chiara attribuzione di responsabilità nel quadro del complessivo sistema dei controlli interni”.

I principi ed i criteri dettati dalla legge delega sono stati attuati in Italia ad opera del D.Lgs. n. 128/2015, mediante l’introduzione del regime dell’adempimento collaborativo (c.d. cooperative compliance) finalizzato a promuovere forme di comunicazione e di cooperazione rafforzata tra l’Amministrazione Finanziaria e i contribuenti dotati di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale.

L’implementazione dei modelli 231 con il tax control framework

È indispensabile, inoltre, che i sistemi di controllo scelti per la gestione del rischio fiscale si coordinino con il quadro complessivo di regole e procedure preesistenti nella società, soprattutto – come detto – con i modelli organizzativi che le società adottano ai sensi del D.Lgs. 231/2001.

Sebbene la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti non preveda ad oggi la gestione del rischio fiscale, quest’ultima è destinata ad assumere rilevanza per mezzo degli altri rischi esplicitamente considerati. Il Tax control framework – inserito nel Modello Organizzativo – permette, infatti, alle società un controllo preventivo (e l’esclusione successiva) di atti/fatti passibili di contestazione ex D.Lgs. 231/01 (i.e. ricettazione, riciclaggio ecc.) oltre a reati tributari (D.lgs. 74/2000) passibili di contestazione tramite l’associazione a delinquere (art. 24 ter D.Lgs 231/01).

Ciò significa che è diventato ormai necessario per le società aggiornare i modelli 231 integrando i protocolli specifici da questi previsti con le altre procedure aziendali predisposte al fine di garantire la tracciabilità dei movimenti finanziari, il rispetto della segregazione dei compiti decisa dal management dell’impresa e la regolarità nella tenuta della documentazione inerente.

È ormai sempre più chiaro che la gestione del “rischio fiscale” sia diventato un elemento imprescindibile sia per l’operatività aziendale - non solo a livello di “compliance” ma anche in ambito strategico, operations e finanziario – che per la tutela del management aziendale, che si trova responsabile per fatto (magari illecito) di soggetti aziendali attraverso cui si svolge il “processo” di determinazione del quantum soggetto ad imposizione fiscale.

Sul piano prettamente processuale, infatti, il Tax control framework costituisce un valido strumento difensivo per dimostrare l’estraneità dell’amministratore alle condotte fraudolente commesse nel contesto aziendale e da lui non conosciute/conoscibili (Cass. Pen. n. 38717/16 e Cass. Pen. 44897/2016).

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Contributo scritto in collaborazione con l'Avvocato Francesco Rubino, Senior Associate presso Morri, Rossetti & Associati.

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