09 Aprile 2020

Il rispetto del principio di correttezza e buona fede contrattuale al tempo del COVID-19

SIMONA FARINA

Immagine dell'articolo: <span>Il rispetto del principio di correttezza e buona fede contrattuale al tempo del COVID-19</span>

Abstract

                                  Aggiornato al 9/04/2020

 

La recente diffusione del Coronavirus sul territorio nazionale ed internazionale ha avuto – e verosimilmente rischia di continuare a creare – un fortissimo impatto sull’economia e sui rapporti contrattuali.

Tale impatto, da un punto di vista strettamente giuridico, potrebbe comportare un possibile aumento del rischio di “inadempimento contrattuale” da parte di coloro che – in buona fede – hanno assunto particolari obbligazioni commerciali, sulle quali l’epidemia sembrerebbe avere effetti sospensivi se non addirittura estintivi.

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Occorre premettere che l’inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art.1218 c.c., consiste nella mancata esecuzione di una prestazione qualora sia carente, da parte, dell’obbligato, l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, per la realizzazione dell’interesse del creditore, a condizione che la prestazione sia soggettivamente possibile.

In altre parole, la difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza, nel rispetto del principio cardine della correttezza e buona fede contrattuale.

In specie, il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto impone a ciascuna delle parti di “agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali.

Conseguentemente, in osservanza del principio di correttezza e buona fede contrattuale succitato, per esonerarsi dalle conseguenze dell’inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte, il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da “causa a sé non imputabile

Causa costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che “da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo”.

L’art. 1218 c.c. pone, infatti, a carico del debitore, per il solo fatto dell’inadempimento, una presunzione di colpa superabile solo con la prova della circostanza specifica che abbia reso impossibile la prestazione. O almeno la dimostrazione che, qualunque sia stata la causa dell’impossibilità, la medesima non possa essere imputabile al debitore.

Fermo quanto precede, non può certo sottacersi come, in tema di inadempimento contrattuale, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’obbligazione si estingua quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile.

Viceversa, se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché la stessa perdura, non sarà responsabile del ritardo nell’inadempimento. Per conseguenza, il debitore, cessata la causa d’impossibilità, deve sempre eseguire la prestazione, indipendentemente da un suo diverso interesse economico che può, eventualmente, far valere sotto il profilo dell’eccessiva onerosità sopravvenuta.

In definitiva, dunque, la liberazione del debitore per sopravvenuta impossibilità della prestazione può verificarsi solo se concorrono l’elemento oggettivo dell’impossibilità di eseguire la prestazione e quello soggettivo dell’assenza di colpa da parte del debitore riguardo alla determinazione dell’evento che ha reso impossibile la prestazione.

Ora, tra le cause possibili o invocabili ai fini della su citata “impossibilità” della prestazione rientrano, per quanto qui ci occupa, in relazione all’emergenza pandemica da Covid-19, gli ordini o i divieti sopravvenuti dell’autorità amministrativa, ovverosia provvedimenti legislativi o amministrativi, dettati da interessi generali, che rendano impossibile la prestazione, indipendentemente dal comportamento dell’obbligato.

Ad inciso, preme rimarcare come l’impossibilità sopravvenuta si distingua dall’eccessiva onerosità sopravvenuta, posto che quest’ultima non impedisce la prestazione, ma la rende più “onerosa”, con ciò consentendo al debitore di chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione della prestazione.

Orbene, alla luce di quanto sopra, non è certo agile decretare se l’emergenza Covid-19 e/o le correlative misure adottate dal Governo possano costituire valida ragione di impossibilità o di sopravvenuta onerosità delle prestazioni contrattuali.

Va da sé, pertanto, che gli effetti del Covid-19 sui contratti stipulati ante emergenza pandemica andranno necessariamente valutati caso per caso, tenuto conto della pluralità di fattori in gioco, come i fatti portati a sostegno del ritardo e/o dell’inadempimento contrattuale, l’incidenza specifica degli stessi sulla prestazione, l’assenza di soluzioni alternative per l’adempimento, la portata del testo contrattuale.

Il tutto in una logica di cooperazione delle parti secondo il principio di correttezza e buona fede contrattuale, cercando di assumere il più possibile comportamenti adeguati alla peculiarità del momento, finalizzata a garantire il giusto equilibrio tra interessi opposti, evitando di incorrere in condotte meramente opportunistiche.

 

 

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