19 Agosto 2022

Il rischio greenwashing e il caso Miko c. Alcantara. La prospettiva del legale in-house

PAOLO QUAINI

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L'ordinanza del Tribunale di Gorizia

L'ormai celebre ordinanza emessa in sede cautelare lo scorso novembre dal Tribunale di Gorizia nel giudizio civile instaurato da Alcantara nei confronti della concorrente Miko è stata salutata dall’opinione pubblica, giuridica e non, come un punto di svolta, dal momento che costituisce la prima pronuncia emessa dalla nostra magistratura ordinaria in materia di c.d. “greenwashing”, termine con cui si indica comunemente il fenomeno per il quale le imprese, per evidenti scopi promozionali, nel presentare all’esterno le proprie attività (prodotti, servizi, azioni, processi) attribuiscono ad esse “proprietà sostenibili” che nella realtà non esistono, o comunque non raggiungono il livello indicato.

Per inciso, è interessante notare come l’accezione del termine “greenwashing”, originariamente riferita solo alla sostenibilità ambientale (e quindi solo alla falsa eco-friendliness), nel frasario comune si stia progressivamente estendendo a tutte le fattispecie rientranti nel paradigma ESG, e quindi anche alle false dichiarazioni rese dalle imprese in materia “social” e in tema di governance

In particolare, il contenzioso tra Alcantara e Miko trae origine dalla richiesta della prima (società produttrice dell’omonimo tessuto) al giudice civile di disporre l’inibitoria della diffusione di alcuni messaggi pubblicitari realizzati dalla seconda (società produttrice di una microfibra ugualmente utilizzata nell’industria automotive e simile al tessuto prodotto da Alcantara), in quanto ingannevoli. E la pretesa ingannevolezza, secondo Alcantara, risiedeva proprio nella falsità delle asserite proprietà di natura green e ambientalistica che la convenuta attribuiva al proprio prodotto (e riguardanti la composizione e la derivazione del tessuto, l’utilizzo di coloranti naturali, la riciclabilità e la riduzione del consumo di energia e di emissioni CO2).

 

Pubblicità ingannevole

Nell’accogliere il ricorso di Alcantara, il Tribunale di Gorizia ha enunciato il principio secondo cui costituisce pubblicità ingannevole quella nella quale un prodotto viene definito “naturale” e “amico dell’ambiente” in modo improprio perché non verificabile. Dal suddetto principio sembra plausibile far discendere la conseguenza   che d’ora  in   poi, per   essere lecita, la comunicazione ambientale dovrà essere circostanziata e oggettivamente verificabile, non essendo al contrario legittimi i claim vaghi, generici ed esorbitanti (principi espressi peraltro già da tempo dall’articolo 12 del Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale, richiamato infatti anche dalla stessa ordinanza del Tribunale di Gorizia).

Peraltro, l’ordinanza in questione è stata poi revocata lo scorso 12 marzo dal medesimo Tribunale, in sede di reclamo, per assenza del periculum in mora, avendo il collegio ritenuto che la ricorrente non fosse stata in grado di fornire “alcuna prova del fatto che la comunicazione 'verde' di Miko abbia determinato la perdita o un concreto rischio di perdita di clienti”. Ma, a ben vedere, l’ordinanza del reclamo non conferma né smentisce le affermazioni di principio contenute nella prima pronuncia, la verifica sulla correttezza delle quali rimarrà quindi affidata al successivo giudizio di merito, ove instaurato dalle parti.

 

Tanto rumore per nulla? Certamente no

Al di là dell’esito finale che avrà il contenzioso tra Alcantara e Miko, la pronuncia del Tribunale di Gorizia costituisce senza dubbio un’ulteriore tappa del processo di cambiamento che già da tempo è in atto in materia di tutela dell’ambiente e della biodiversità, e come tale dovrebbe quindi essere letta dagli operatori del diritto. Soprattutto considerando che a tale step se ne sono aggiunti, nel recente periodo, altri ugualmente e forse anche più significativi, quali l’ingresso della tutela dell’ambiente e della biodiversità nella Costituzione Italiana, attraverso la modifica degli articoli 9 e 41 della Carta definitivamente approvata lo scorso febbraio dal Parlamento, e la proposta di Direttiva per la responsabilizzazione consumatori e protezione dal greewashing formulata dalla Commissione Europea lo scorso 30 marzo, con l’obiettivo – tra gli altri – proprio di proibire alle imprese di inserire nella proprie comunicazioni al consumatore dichiarazioni ambientali considerate ingannevoli, per esse intendendosi anche quelle affermazioni ambientali vaghe (ad esempio "verde", "eco-friendly", "buono per l'ambiente") che non sono adeguatamente giustificate e neppure sono dimostrabili.

Tra gli operatori del diritto, un’attenzione particolare al tema del greenwashing e alle sue evoluzioni dovrebbe essere riservata dal giurista d’impresa, che costituisce il primo e più importante presidio per l’azienda nella gestione del relativo rischio, e quindi deve saper leggere con anticipo i cambiamenti in atto per adattare tempestivamente agli stessi il suo operato.

 

Quali i messaggi di allerta che il legale in-house può trarre dal contesto sopra descritto?

Un primo warning è che promuovere un prodotto o un marchio come “green” o più genericamente come “sostenibile” può costare caro ad una azienda. E non si tratta di un rischio teorico, basti pensare che lo scorso anno sempre la Commissione Europea, nell’ambito del monitoraggio delle violazioni della normativa UE in materia di tutela dei consumatori online, ha rilevato che oltre la metà dei green claim contenuti nei siti internet delle aziende prese a campione risulta essere priva di fondamento, ovvero non sufficientemente circostanziata.  Occorre allora che l’esame preventivo da parte del legale in-house delle comunicazioni aziendali ai consumatori sia oggi più che mai rigoroso ed accurato, e venga compiuto affiancando le linee di business nella raccolta delle evidenze scientifiche a supporto dei claim pubblicitari.

Anche perché l’accertamento di una condotta di greenwashing da parte delle autorità competenti può implicare, a seconda dei casi, inibitorie e/o sanzioni economiche, ma invariabilmente finisce per causare all’azienda anche la perdita, in misura minore o maggiore, della fiducia dei propri consumatore, e dunque un serio danno reputazionale (soprattutto qualora, come nel contenzioso tra Alcantara e Miko, il provvedimento del giudice imponga la pubblicazione   del  dispositivo  sul    website dell’azienda in questione). E lo screening preventivo non deve concentrarsi solo sui claim pubblicitari di natura sostenibile, bensì deve estendersi anche alle strategie di intellectual property portate avanti dall’azienda: la registrazione di un marchio contenente riferimenti o collegamenti alla sostenibilità ed alla protezione dell’ambiente, fenomeno tra l’altro in aumento ad esempio a livello comunitario, espone l’azienda ad un rischio di greenwashing pari a quello di una campagna pubblicitaria.

Ma - altro importante warning - la minaccia del greenwashing non risiede solo nella comunicazione ai consumatori, ma può annidarsi anche nei rapporti con altri stakeholder, come gli azionisti, gli investitori e i finanziatori, ragion per cui anche la gestione dei suddetti rapporti deve essere presidiata e meticolosamente controllata in via preventiva dal legale in-house. Qualche esempio? Pensiamo al rischio di azioni di responsabilità sociale che potrebbero essere intraprese dai soci di minoranza in caso di divergenze sulle politiche di sostenibilità adottate dagli amministratori o dai soci di maggioranza. Oppure a quello delle azioni risarcitorie promosse dai soci in caso di irregolarità o falsità di quanto dichiarato dalla società all’interno della c.d. Dichiarazione Non Finanziaria, che le imprese di grandi dimensioni già oggi sono obbligate a redigere (o del Bilancio di Sostenibilità, che diventerà obbligatorio per grandi imprese e PMI quotate a partire dal 2024). O, ancora, a quello delle azioni, sempre risarcitorie, che gli investitori potrebbero intentare nei confronti della società emittente di un prodotto finanziario nel caso in cui il prospetto informativo contenga informazioni non veritiere o alterate.

E se il legale in-house non disponesse, all’interno del suo team, di tutte le competenze necessarie ad effettuare questa attività di screening preventivo? In tal caso non dovrà esitare a coinvolgere in tale attività anche legali esterni specializzati in consulenza contro il greenwashing, vista la serietà dei potenziali impatti economici e reputazionali per l’azienda. Anche perché, spesso, il confine tra il greenwashing e la frode o la truffa contrattuale è davvero labile, e il rischio di conseguenze penali per il top management dell’azienda è sempre in agguato.

Solo attraverso questa attività di monitoraggio preventivo il legale in-house potrà tutelare efficacemente la propria azienda dai rischi di “contenzioso climatico”, di class action e di azioni risarcitorie e/o di responsabilità di ogni tipo sopra descritto, tutti fenomeni che gli addetti ai lavori prevedono in grande crescita nei prossimi anni.

 

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