30 Giugno 2022

Non è di comodo la società che, per ragioni oggettive, non consegue i ricavi minimi

DANIELE CANE'

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Abstract

L’ordinanza n. 16472 del 23 maggio 2022 è un utile sunto dei princìpi che la giurisprudenza ha elaborato in relazione ad una disciplina, quella delle società di comodo, da sempre molto discussa, anche perché concepita per mai chiarite finalità regolatorie (art. 30, l. 724/1994).

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La normativa

La normativa prevede, in sintesi, l’imposizione in base a un reddito minimo per quelle società che, nel periodo d’imposta, non superino il c.d. test di operatività; non conseguano, cioè, ricavi e proventi della gestione ordinaria, inclusi gli incrementi delle rimanenze, almeno pari all’importo risultante dall’applicazione di certi coefficienti al valore degli attivi finanziari e immobiliari.
È posta, insomma, una doppia presunzione, l’una conseguente all’altra: se la società non supera il test di operatività, si considera non operativa e si presume che il suo reddito di periodo sia almeno pari a quello risultante, di nuovo, dall’applicazione, al valore dei suoi beni, di alcuni coefficienti (diversi da quelli valevoli per il test di operatività). Il fisco conserva il potere di accertare un reddito eventualmente superiore, ma, se è il contribuente a dichiararlo, l’imposizione si appunta su di esso (al netto delle perdite riportate a nuovo).

Si è in origine inteso contrastare la costituzione di società di mero godimento, utilizzate cioè per la detenzione di patrimoni personali come fossero privati. Per questo, oggetto d’imposta diviene un reddito medio-ordinario, determinato, cioè, non analiticamente ma in modo para-catastale, non dissimile da certi redditi fondiari (solo che qui si tratta di patrimoni imprenditoriali).

 

I problemi

Tassandosi un reddito presunto, una disciplina del genere, se applicata senza deroghe, violerebbe i princìpi fondamentali dell’imposizione; primo fra tutti, quello secondo cui si concorre secondo capacità contributiva effettiva. Perciò, la presunzione di non operatività è stata esclusa in circostanze predeterminate, in cui le situazioni che la norma intende contrastare non possono verosimilmente verificarsi. Dal 2006, può inoltre essere disapplicata su istanza della società, che dimostri quali «situazioni oggettive» le hanno impedito di superare il test di operatività o di conseguire il reddito minimo (comma 4-bis, art. 30, introd. dal d.l. 223/2006).

A parte questa possibilità, rimessa appunto al contribuente, non è oggi più previsto un contraddittorio obbligatorio fra fisco e contribuente prima dell’atto impositivo, sicché l’accertamento avviene con modalità sostanzialmente automatiche (“a tavolino”).

In questo contesto, i problemi più spinosi riguardano la natura, assoluta o relativa, della presunzione di reddito minimo e la portata e i contenuti della prova contraria – aspetti che incidono sulla proporzionalità dell’intera disciplina rispetto agli scopi antielusivi che si prefigge.

Si è in particolare dubitato della possibilità di superare la presunzione di reddito minimo, e quindi essere tassati su un reddito inferiore, o se la prova contraria sia possibile solo rispetto alla presunzione di non operatività; se sia consentito al contribuente offrirla in giudizio e quali circostanze oggettive giustifichino la disapplicazione della normativa su istanza del contribuente.

Questi e altri problemi sono stati sollevati da una società immobiliare che non aveva superato il test di operatività e, inoltre, aveva prodotto un reddito inferiore al minimo presunto. La società aveva prima presentato interpello disapplicativo, ottenendo parere negativo, e poi impugnato l’avviso di accertamento, che non aveva apprezzato le circostanze oggettive che non le avrebbero permesso di superare il test.

 

I princìpi

L’ordinanza accoglie il principale motivo di ricorso della società, ritenendo che, date le circostanze addotte, fosse giustificato il mancato superamento del test di operatività. Configura una causa oggettiva di disapplicazione l’impossibilità di recedere da contratti di locazione commerciale, sottoposti alla disciplina vincolante degli artt. 27, 28 e 29, l. 392/78, e che prevedano canoni comunque in linea con i valori medi utilizzati dall’osservatorio del mercato immobiliare.

Non è però questo l’unico aspetto di interesse, perché la Corte riprende alcuni importanti princìpi, che concorrono a depotenziare la disciplina delle società di comodo; in particolare e nell’ordine: che la prova contraria può riguardare anche le ragioni per cui non si è potuto conseguire il reddito minimo – desumibile del resto dal dettato normativo – e può essere offerta in giudizio; soprattutto, si può provare l’esistenza di un’effettiva attività economica, il cui svolgimento disattiva la presunzione di non operatività (essendo provato esattamente il fatto contrario a quello che la norma presume).

Resta nondimeno un’irrazionalità di fondo, mai risolta. Sembra infatti di capire che, se anche il contribuente non supera il test di operatività, può comunque provare le circostanze oggettive che non gli hanno consentito di conseguire il reddito minimo ed esser di conseguenza tassato sul minor reddito effettivo. Il che equivale, nella sostanza, a disapplicare la normativa in parte dei suoi effetti (restano le limitazioni al riporto dell’eccedenza Iva). Il problema di fondo è, però, che non si capisce come una società, che si presume non operativa, possa produrre il reddito che la legge presume – o che il contribuente dimostra, come in questo caso.

Il che conferma l’innaturale funzione punitiva di un prelievo para-catastale ma destinato ad essere pagato col patrimonio. Forse anche per questo sembra destinato ad esser presto superato (v. proposta di direttiva della Commissione europea sulle c.d. shell companies).

 

 

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