20 Maggio 2020

La tutela della libertà religiosa ai tempi del COVID-19

ANTONIO PETRALIA

Immagine dell'articolo: <span>La tutela della libertà religiosa ai tempi del COVID-19</span>

Abstract

                               Aggiornato al 14.05.2020

Il presente contributo tende ad offrire – brevemente – uno sguardo sulla posizione assunta dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) nei confronti del Governo italiano in questo momento di difficile bilanciamento fra diritti costituzionalmente riconosciuti e tutelati.

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La Fase 1

Il dialogo intenso instauratosi fra la Chiesa Cattolica in Italia, tramite la CEI e le Conferenze Episcopali Regionali, ha spinto a formulare maggiori riflessioni sulla reale portata – in questo tempo di emergenza sanitaria – del dictamen di cui all’art. 19[1] della nostra Costituzione Repubblicana.

Sin dai primi giorni in cui le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna sono diventate vere e proprie “frontiere di guerra” al Covid-19, la Chiesa Cattolica Italiana ha adottato una serie di orientamenti e comunicazioni frutto di un ininterrotto ed intenso dialogo sia con la Presidenza del Consiglio dei Ministri che con alcuni Ministri. Ciò ha portato il Governo, nonostante l’avviso contrario della Segreteria Generale della CEI[2], a propendere per la scelta di sospendere preventivamente, da subito (domenica 8 marzo) e fino al 3 aprile, sull’intero territorio nazionale, “le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri”.

Sin da subito, le varie realtà ecclesiali dislocate sul territorio hanno intrapreso numerose iniziative volte al contemperamento delle esigenze dei cittadini in un simile momento di crisi – sanitaria e monetaria –, mediante il sostegno economico, ma anche posto in essere svariate misure volte a coltivare le relazioni sociali purtroppo divise da uno schermo.

L’evoluzione della situazione epidemiologica – riconosciuta come pandemia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – ha indotto le Istituzioni civili ad individuare, con la successiva decretazione d’urgenza,  nel successivo 3 maggio il termine finale del divieto di celebrare le messe in concorso di popolo.

È bene precisare come, con Nota del Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione – Direzione Centrale degli affari dei culti, lo stesso Mons. Ivan Maffeis, specificamente il 27 marzo, ha fornito orientamenti volti a dare un “minimo di dignità” alle celebrazioni, affermando che sarebbe stato in linea con lo stato pandemico e quindi la finalità della decretazione d’urgenza, ammettere che “accanto al celebrante venisse assicurata la partecipazione di un diacono, di chi serve all’altare, oltre che di un lettore, un cantore, un organista ed, eventualmente, due operatori per la trasmissione”[3].

 

La Fase 2

L’auspicata fine delle limitazioni imposte all’esercizio del diritto di culto, opportunamente e saggiamente recepite anche dai decreti di ciascun Vescovo, richiama l’importanza – anche in uno stato di eccezione di tale portata – di preservare i rapporti tra Stato e Chiesa così come regolati dalla normativa vigente e che – si sa bene – trovano consacrazione nell’art. 7[4] della nostra Costituzione.

A tutti è noto che, attualmente, sia ancora vietato celebrare le messe in concorso di popolo e che ciò sarà possibile – attraverso l’adozione di un preciso Protocollo stipulato tra il Governo e la CEI – solo dal prossimo lunedì 18 maggio, garantendo un accesso contingentato al luogo di culto, utilizzando dispositivi di protezione personale e mantenendo il distanziamento sociale di almeno 1 metro.

 

La convivenza con il Covid-19

La situazione che si è vissuta e che si sta ancora vivendo, apre sicuramente scenari interessanti sul futuro dei rapporti non solo tra Stato e Chiesa, Stato e confessioni religiose tout court, ma anche tra cittadino e Stato.

Ci si è trovati, a “suon di” decreti legge e decreti presidenziali governativi, barricati in casa, con diritti costituzionalmente riconosciuti lesi da un giorno all’altro.

Anche nella misura in cui una situazione del genere dovesse legittimare gli strumenti normativi utilizzati ad incidere sui diritti fondamentali della persona, bisognerebbe chiedersi fino a che punto tali diritti possano essere compressi. Potrebbe risultare inammissibile e contra ius una compressione del diritto soggettivo tale da renderlo inutilizzabile, in quanto sarebbe “del tutto svuotato della propria sostanza”.

Naturalmente si parla di diritti costituzionalmente garantiti ed è per tale ragione che l’opinione pubblica – tuttora – ma anche la dottrina giuridica, in modo sicuramente più lucido ed obiettivo, disquisisce in merito alla legittimità degli interventi adottati e alle loro conseguenze.

È auspicabile che presto si possa ritornare a vivere e a godere, nel pieno ed effettivo esercizio, dei diritti fondamentali – attualmente fortemente limitati se non addirittura sostanzialmente svuotati –; si pensi, in special modo, al diritto di circolare e spostarsi liberamente sul territorio nazionale (e non solo) ex art. 16[5] Cost.

 

 

[1] L’art. 19 della Costituzione recita testualmente: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.

[2] Come ampiamente descritto in “Brevi note della Segreteria Generale (9-15 marzo 2020)” su chiciseparera.chiesacattolica.it.

[3] Si vada, per completezza, su interno.gov.it.

[4] L’art. 7 della Costituzione recita così: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.

[5] L’art. 16 della Costituzione si esprime in questi termini: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche”.

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