16 Settembre 2022

Great Resignation e valorizzazione giovani talenti: cosa c’entra la sostenibilità?

MASSIMILIANO BOSISIO

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Abstract

Negli ultimi mesi mi è capitato, come penso a voi, di leggere articoli e post sulla difficoltà, da parte delle imprese, grandi o piccole che siano, nella ricerca di nuovi collaboratori. C’è chi lamenta la poca voglia di lavorare da parte delle nuove generazioni, altri in risposta si dolgono di onorari miseri ed indecenti. 

Il tema mi appassiona probabilmente perché ho due figli che si stanno costruendo un percorso professionale e le difficoltà sono note a tutti, in fondo siamo passati tutti da lì. 

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Oggi sembra che il paradigma di selezione sia capovolto, soprattutto per i giovani che non sono disposti a sacrificare il loro tempo in organizzazioni che promettono futuri radiosi più o meno credibili a fronte però di un presente quantomeno improbabile: si scelgono il lavoro e se non soddisfa le loro aspettative lo lasciano, anche senza un nuovo sicuro approdo.

Questa tendenza viene fotografata dai recenti dati pubblicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e riporta relativamente al primo quadrimestre 2021 che circa mezzo milione di lavoratori in Italia ha rassegnato volontariamente le dimissioni, la maggioranza appartiene alla fascia più giovane.

Questo fenomeno ha anche un nome: la Great Resignation.

Ma cosa c’entra il fatto che migliaia di persone, per lo più giovani, si dimettono con la sostenibilità?

La definizione di “sostenibilità” apparsa per la prima volta nel 1987 all’interno del c.d. Rapporto Brundtland (“Our common people” - World Commission on Environment and Development) è la condizione di uno sviluppo in grado di “assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.

Ci rendiamo subito conto che questo sviluppo non può orientarsi soltanto riguardo l’attenzione e la risoluzione, certamente urgente, di problematiche ambientali, ma ha ripercussioni su “come” lavoro e che impatto ho sulla community direttamente o non direttamente a me collegata. In pratica, il soddisfacimento di obiettivi personali che compromettono quelli dei miei stakeholder, non ha più senso ed ha vita breve.

Ecco allora che le imprese e le organizzazioni professionali sono chiamate a ridisegnare e proporre percorsi professionali che permettano un equilibrio tra vita privata e professionale, che siano più aperte ed inclusive e che lavorino per ridurre il gender gap (eliminarlo possibilmente), che siano presenti nella vita dei propri collaboratori e che il diritto alla genitorialità non sia precluso, anzi supportato, che siano portatrici di formazione e consentano la creazione di competenze, anche se queste risorse decidono poi di percorrere nuove strade.

Il tavolo di discussione è certamente aperto e considero che occorra avere il coraggio di una vision diversa e più lungimirante, altrimenti col tempo ci renderemo conto di essere ormai fuori posto.

 

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