È legittimo aspettarsi che un’azienda prenda posizione di fronte a una tragedia umanitaria? La domanda è scomoda, soprattutto in un tempo in cui anche il singolo – cittadino, lavoratore, professionista – fatica a trovare parole lucide, eque, responsabili. Eppure, il silenzio è già una risposta che, per quanto implicita, produce conseguenze.
La guerra in corso a Gaza sollecita una riflessione profonda. Interpella innanzitutto la coscienza individuale, ma chiama in causa anche quelle organizzazioni che hanno scelto di porre la responsabilità sociale al centro del proprio posizionamento strategico. Non si tratta della prima emergenza geopolitica a rivelare le crepe dell’ordine internazionale: di fronte ad altri conflitti – come l’invasione dell’Ucraina – le reazioni del mondo imprenditoriale sono state rapide, visibili, inequivocabili. Oggi, invece, questa stessa capacità di reazione appare improvvisamente attenuata e manca quello scatto che, in altre occasioni, ha portato all’azione condivisa.
La stratificazione storica del conflitto israelo-palestinese impone un’analisi approfondita, che tenga insieme le dimensioni politiche, giuridiche e culturali sviluppatesi nel corso dei decenni. Questo livello di complessità, per quanto rilevante, non esime dalla responsabilità di prendere posizione di fronte a violazioni sistematiche e documentate dei diritti umani fondamentali. L’impresa contemporanea, tanto più se si riconosce nei principi ESG, è oggi nella condizione di esercitare un ruolo attivo all’interno del discorso pubblico, affermando con coerenza la propria funzione culturale oltre a quella economica. Non pronunciarsi significa sottrarsi a questa responsabilità, proprio nel momento in cui diventa più urgente.
L’articolo 1 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea afferma che “la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata.” È a partire da questo principio che vogliamo guardare ciò che accade. In queste settimane, in Palestina, assistiamo a una sospensione prolungata di quella dignità: persone private di accesso a cibo, acqua, cure, protezione. Bambini cresciuti sotto le bombe, senza più scuole, case, infrastrutture. Un’intera popolazione civile vive oggi sotto assedio. Secondo le Nazioni Unite, oltre il 96% della popolazione soffre di insicurezza alimentare acuta. L’80% delle strutture sanitarie è fuori uso. Le vittime superano le 40.000.
Come 4cFuture, riteniamo che vi siano contesti in cui la responsabilità di esporsi rappresenta una scelta inevitabile per chi si occupa di sostenibilità, diritti e giustizia sociale. Ogni organizzazione che si riconosce in questi valori è chiamata ad allineare visione, linguaggio e azione, soprattutto di fronte a scenari che mettono in discussione la dignità stessa della vita umana. In situazioni in cui una popolazione civile viene privata di mezzi di sopravvivenza, l’impresa gioca un ruolo che va oltre l’economia. La sua presenza pubblica partecipa alla costruzione di significati, orienta il discorso collettivo, incide sulla legittimazione o sulla delegittimazione di ciò che accade. Sostenere un approccio neutrale di fronte a un’escalation violenta equivale a rafforzare — anche solo per inerzia — una premeditata dinamica di annientamento. L’imparzialità, quando utilizzata come strumento di autoprotezione, assume la forma di un cortocircuito privilegiato che si basa sull’autodifesa. Diventa uno spazio di sicurezza simbolica che protegge chi osserva e lascia esposte soltanto le già dichiarate vittime.
Quando la realtà oltrepassa ogni soglia di negabilità, l’immobilismo acquisisce densità politica: si traduce in adesione implicita, nella tenuta silenziosa di un ordine che consente all’impunità di sedimentarsi come normalità. In questo scenario, la responsabilità sociale d’impresa si afferma come gesto di consapevolezza pubblica, capace di collocarsi nel tempo e di interpretarlo. Le imprese incidono sull’immaginario collettivo tanto quanto le istituzioni o i media: partecipano alla definizione dei limiti e all’elaborazione di ciò che diventa visibile. Nei momenti in cui la disumanizzazione si fa sistemica, la voce dell’impresa ha il potenziale di creare discontinuità. Può agire come rifiuto consapevole dell’assuefazione, come affermazione di un’etica non delegabile. Difendere l’umano significa assumersi un compito culturale pieno, fondato su coerenza e azione, al di là dell’autonarrazione o di una performatività valoriale.
La nostra posizione si radica in questa prospettiva. Siamo dalla parte dei diritti umani, della popolazione civile palestinese, di chi oggi vive sotto attacco e chiede giustizia. Questa scelta nasce dalla coscienza storica, dalla volontà di agire dentro il tempo e di rispondere con chiarezza. La storia riconosce le posture esplicite, distingue ciò che viene affermato da ciò che viene evitato. Esistono frangenti in cui responsabilità e coraggio coincidono. In quei frangenti, ogni ambiguità diventa complice e ogni parola – o assenza – lascia traccia.