15 Marzo 2022

Sistema Giustizia | Intervista a Maurizio Bortolotto, founding partner Gebbia Bortolotto Penalisti Associati

REDAZIONE

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Avvocato, la giustizia in Italia soffre di ritardi cronici e ben noti: come impatta questo problema sulla materia del diritto penale del lavoro?

Nel risponderle parto da una citazione: come diceva il Chiovenda, noto processualista italiano, “il processo è già di per sé una sanzione per un galantuomo”.

Ebbene, i tempi della giustizia sono un problema per le vittime e per gli imputati.

Quanto alle vittime, credo che la mia affermazione non necessiti di spiegazioni ulteriori.  Per gli imputati, invece, forse dobbiamo approfondire un po’.

Da un lato, infatti, per le persone poco ligie sapere di aver molto tempo prima di una effettiva punizione certo non ha un effetto deterrente. Per le persone attente, invece, che investono e sono davvero garanti, come vuole la legge, della sicurezza, il problema assume connotazioni diverse, che coinvolgono direttamente la sfera personale e l’immagine di buon imprenditore che vuole tutelare per amor proprio e nei confronti dei suoi stakeholders.

Il tutto nuoce, ovviamente, al sistema giustizia ed al Paese. Spesso si va a processo per fatti che andranno sicuramente prescritti. Quindi si fa un processo verosimilmente lungo ed inutile che genera costi altissimi e che non accerta proprio nulla.

Per un politico, un professionista, un manager, un dipendente pubblico un processo penale non ha bisogno di una condanna per portare conseguenze gravissime sulla sua vita privata e pubblica.

Questa riflessione che faccio a voce alta, la faccio da uomo curioso delle cose della vita che troppe volte ha visto come tanti processi sono stati di per sé sanzioni gravissime per le persone solo per la loro stessa esistenza… e allora mi chiedo: ma tutto questo non si può evitare?

Forse sì.

Nella riforma Cartabia si affronta il tema delle cosiddette “indagini fumose”, ovvero quelle indagini che partono con molto clamore mediatico e poi si concludono con nulla. Ecco, la riforma prevede che il PM possa chiedere il rinvio a giudizio dell'indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una ragionevole previsione di condanna. La speranza è che questo strumento, non nuovo ma forse meglio precisato, possa ridurre il numero di processi e, conseguentemente, la loro durata. La chiave di volta sarà in mano, anzitutto, alla Magistratura: è, infatti, arrivato il momento che anche i magistrati sentano il dovere di cambiare ed evitare personalismi che hanno fortemente compromesso la fiducia dei cittadini nella Magistratura.

 

Nella sua esperienza, potrebbe riferire di un caso particolarmente significativo?

Si è conclusa a metà dicembre la vicenda giudiziaria che ha coinvolto un liquidatore di una Società sottoposta a procedura concorsuale, imputato per omicidio colposo commesso in violazione delle norme poste a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Nel marzo del 2013, uno dei pochi dipendenti rimasti in forze ad una industria manifatturiera, messa in liquidazione e concordato preventivo, adibito allo svolgimento di un mero servizio di guardiania del perimetro della fabbrica, si recava – per ragioni del tutto ignote ed estranee al servizio richiesto – presso una palazzina uffici sita ai margini dello stabilimento medesimo e, dopo aver salito due piani di scale a piedi, apriva la porta che dava al terrazzo, percorreva in tutta la sua lunghezza quest’ultimo e poi, scavalcato il muretto di eliminazione del predetto, camminava lungo le tettoie di un capannone fin tanto che una delle lastre di copertura cedeva, facendo cadere il lavoratore che, conseguentemente, perdeva la vita.

Il liquidatore veniva, quindi, indagato – e successivamente imputato – in quanto veniva individuato quale datore di lavoro dell’infortunato. Veniva altresì coinvolta nel processo anche la Società, per l’autonoma responsabilità prevista dal d.lgs. 231/01.

Il processo di primo grado si è concluso con assoluzione con formula piena, dal momento che non è stata dimostrata alcuna connessione tra le ragioni di lavoro, ovvero ulteriori eventuali ordini di servizio impartiti al lavoratore, ed il comportamento dallo stesso tenuto e che ne ha causato la morte.

Al termine dell’udienza fissata per la lettura del dispositivo della sentenza il PM, senza neanche attendere le motivazioni, anticipava alla difesa la sua intenzione di presentare ricorso in appello, a tutela del lavoro e delle indagini svolte dalla Polizia Giudiziaria, nonostante la vittima fosse stata risarcita.

Tuttavia, anche la Corte d’Appello confermava pienamente la sentenza di primo grado e, quindi, condivideva la bontà del ragionamento logico, fattuale e giuridico indicato dal Tribunale nell’escludere la responsabilità dell’imputato.

Ma nuovamente la Pubblica Accusa presentava impugnazione, con conseguente apertura del terzo grado di giudizio avanti la Corte di Cassazione.

In seguito all’udienza dello scorso 15 dicembre, la sentenza assolutoria veniva nuovamente confermata, con declaratoria di inammissibilità del ricorso presentato dall’Accusa.

Questa triste vicenda giudiziaria è emblematica.

Si tratta di uno dei casi, che, purtroppo, non sono pochi nel panorama giudiziario italiano, dove ad una tragedia personale ed umana, quale quella vissuta dalla vittima e dai suoi prossimi congiunti, si affianca la “sospensione” della vita quotidiana dell’imputato, innocente.

Non si sta parlando della lecita richiesta di rilettura di una decisione, prevista dal nostro ordinamento, ma di una personalizzazione (quasi un innamoramento) dell’ipotesi accusatoria, portata avanti indipendentemente dalle motivazioni delle due sentenze di merito conformi ed utilizzando sempre i medesimi argomenti, più volte, appunto, confutati e smentiti nei giudizi di merito.

L’inammissibilità dichiarata dalla Corte di Cassazione significa proprio questo, ovvero che per l’ennesima volta i rappresentati dell’Accusa hanno proposto le medesime doglianze finalizzate ad ottenere una diversa valutazione delle prove emerse in sede di primo grado.

Insomma, una vicenda umana doppiamente triste, in quanto i suoi risvolti processuali hanno fortemente segnato, per oltre 8 anni, la quotidianità, personale e professionale, del liquidatore imputato, che è rimasto “impigliato nelle maglie della giustizia” non per ragioni oggettive e di doveroso approfondimento garantito dai tre gradi di giudizio che il nostro ordinamento prevede, ma per ragioni soggettive di coloro che interpretano, errando, una sentenza assolutoria come un insuccesso professionale, quasi come un torto.

 

C'è, in casi come questo, una responsabilità da imputare anche al nostro sistema processuale improntato ai tre gradi di giudizio?

A mio avviso no.

Lo strumento, anzi gli strumenti (i tre gradi di giudizio) sono necessari, anche perché la giustizia è umana. E questo comporta molte volte la necessità di smussare il lato umano che necessariamente, e giustamente, vive e conosce il giudice di primo grado e che, non possiamo non pensare sia così, condiziona il suo parametro di giudizio, seppur saggio e il più possibile obiettivo.

Il discorso è quello già fatto prima: la personalizzazione e l ’innamoramento rispetto alle proprie teorie.

Questo aspetto non riguarda solo la magistratura, ma certamente anche l’avvocatura.

Sta di fatto che, sia una parte del processo che l’altra, se personalizzano fanno un danno alle persone ed al sistema.

Credo che una frase di Calamandrei possa chiudere il ragionamento: "il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore. Infatti, il processo, e non solo quello penale, è di per sé una pena che giudici e avvocati devono abbreviare rendendo giustizia."

 

Il settore della sicurezza sul lavoro è sotto i riflettori della cronaca quasi quotidiana: in alternativa al concetto di sanzione si può pensare a meccanismi di premialità per incentivare i comportamenti virtuosi del datore di lavoro?

Certo. Vede, il sistema antinfortunistico adottato dal nostro Legislatore sembra essere improntato unicamente alla punizione del trasgressore. In molti casi sembra quasi che il Legislatore consideri ottenuto il suo risultato politico nel momento in cui il giudice condanna il Datore di lavoro, dimenticando quello che dovrebbe essere il vero obbiettivo: prevenire incidenti sul lavoro e, soprattutto, permettere e garantire che tutti i lavoratori svolgano la propria attività in un ambiente protetto e privo di rischi.

So che questa mia affermazione può apparire impopolare, se non addirittura offensiva nei confronti dell’istituzione parlamentare, ma è di tutta evidenza che il sistema introdotto prima nel 1956, con il D.P.R. 303/56 e successivamente nel 2008 con il D.lgs. 81/2001 abbia fallito su tutti i fronti. I gravi, gravissimi episodi di cronaca di questi mesi devono necessariamente portarci a riflettere sulla reale efficacia dell’attuale sistema di prevenzione.

Ritengo che riconoscere al Datore di lavoro significativi benefici di natura fiscale a fronte di investimenti in materia di sicurezza incentiverebbe sicuramente il diffondersi di una cultura di prevenzione degli incidenti sul lavoro che ad oggi è, in molti casi, assente.

Mi viene in mente, ad esempio, la possibilità di prevedere un sistema che consenta alle Società che adottino un sistema di gestione certificato ISO 45001 una maggiore riduzione del tasso di premio da corrispondere all’INAIL rispetto a quella già esistente.   

Non si deve mai dimenticare, infine, che il tessuto economico ed imprenditoriale italiano è fondato su imprese di piccole o medie dimensioni che in molti casi vogliono adeguarsi alla normativa, ma non riescono in ragione dei costi che dovrebbero sostenere.

 

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