26 Aprile 2021

Pubblicità per gli avvocati: le ragioni storiche di una diffidenza ormai superata

SUSANNA TAGLIAPIETRA

Immagine dell'articolo: <span>Pubblicità per gli avvocati: le ragioni storiche di una diffidenza ormai superata</span>

Abstract

“Il ripudio di mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione e vanto dell'Avvocatura italiana” (decisione CNF n. 56 del 23/04/1991) 
Da quel giorno sono passati anni, nuovi codici deontologici e una nuova sensibilità per il tema della pubblicità: vediamo come si è arrivati alle regole attuali.

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Intervista a Susanna Tagliapietra: avvocato, professore aggregato di Istituzioni di Diritto Privato all’Università di Padova, Responsabile scientifico 4cLegal. 

Avvocato, la pubblicità per gli avvocati è un tema “che scotta”: da dove nasce questa diffidenza?  

Le cito una decisione del CNF del 1991 “Il ripudio di mezzi pubblicitari di ogni genere costituisce tradizione e vanto dell'Avvocatura italiana”. Fino al codice deontologico forense del 17 aprile 1997 era previsto all’art. 17 proprio un divieto espresso di qualsiasi pubblicità dell’attività professionale per gli avvocati. 

Quindi, quali erano le attività di comunicazione consentite? 

Erano consentite l’indicazione di particolari rami di attività nei rapporti coi terzi, l’informazione sull’organizzazione dell’ufficio e sull’attività professionale svolta. I mezzi: carta da lettera, rubriche professionali e telefoniche, repertori, banche dati forensi. 

Ma soprattutto, l’attività di informazione era ammessa solo se diretta a soggetti già sostanzialmente informati o in rapporto con l’avvocato come clienti e colleghi. 

Qual è stato il cambio di passo più significativo? 

Senz’altro la modifica dell’art. 17 del codice deontologico forense del 16/10/1999 che ha eliminato il divieto espresso di pubblicità e ha riqualificato il tema in termini di informazione sull’attività professionale. 

I mezzi di diffusione dell’informazione consentiti erano identificati: carta da lettere, biglietti da visita e targhe, brochures informative inviate anche a mezzo posta (esclusa la possibilità di proporre questionari o di consentire risposte prepagate); gli annuari professionali, le rubriche, i repertori e i bollettini con informazioni giuridiche. 

Secondo l’interpretazione corrente, erano da ritenersi vietati i mezzi non espressamente consentiti, e quindi: mezzi televisivi e radiofonici; i giornali e gli annunci pubblicitari in genere; la distribuzione di opuscoli o carta da lettere o volantini a soggetti indeterminati; le sponsorizzazioni, le telefonate di presentazione e le visite a domicilio non specificatamente richieste. 

Quanto a siti web e rete Internet, l’uso era consentito solo per siti propri dell’avvocato o di studi legali associati o di società di avvocati e previa segnalazione al Consiglio dell’Ordine; era vietata l’utilizzazione di Internet per offerta di servizi e consulenze gratuite. 

Per finire, erano consentiti se previamente approvati dal Consiglio dell’Ordine, i seminari e i convegni organizzati direttamente dagli studi professionali. 

Il messaggio informativo era visto solo come una divulgazione dei dati dell’attività professionale. Era da ritenersi vietata l’indicazione di dati non espressamente consentiti: i dati che riguardano terze persone; i nomi dei clienti anche in presenza del consenso dei clienti stessi; le specializzazioni, salvo le specifiche ipotesi previste dalla legge; i prezzi delle singole prestazioni; l’annuncio che la prima consultazione è gratuita; la menzione delle percentuali delle cause vinte o l’esaltazione dei meriti; il fatturato individuale o dello studio; le promesse di recupero. 

Sembra di poter dire che il punto più spinoso sia l’utilizzo di internet... 

Sì, senz’altro. Bisogna arrivare all’ultima riforma del Codice Deontologico Forense del 22 gennaio 2016  per veder soppressi i preesistenti limiti sull’utilizzo dei siti web che erano: l’obbligo di utilizzo di domini propri (senza reindirizzamento) direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale l’avvocato partecipi, e previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine; nonché il divieto di riferimenti commerciali o pubblicitari sia diretti che mediante collegamenti interni o esterni al sito. 
 

Dovendo riassumere in estrema sintesi: quali sono i principi che governano attualmente la pubblicità degli avvocati? 

Il tema della pubblicità resta un tema deontologico, attiene alle regole di correttezza dell’attività professionale. Ne tratta il Codice deontologico nell’ultima riforma del 2016 all’art. 35 rubricato “Dovere di corretta informazione”: ad oggi la pubblicità per gli avvocati va inquadrata in un’ottica di informazione sulla propria attività. 

Superata la diffidenza verso internet, le regole ora sono uniche quali che siano i mezzi di informazione, ivi compresi quindi l’uso di piattaforme o social network. 

Quanto ai contenuti, c’è anzitutto il dovere di indicare il titolo professionale, l’ordine di appartenenza, il nome e l’eventuale forma associativa dello studio, l’eventuale titolo accademico, e il divieto di indicare il nome di un avvocato non organicamente collegato con lo studio (con regole espresse per l’avvocato defunto).  

Alcuni principi si possono sussumere sotto il generale dovere di veridicità: verità, trasparenza, dovere di non divulgare informazioni equivoche, ingannevoli, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività professionale. Altre indicazioni fanno riferimento più direttamente al fair play professionale: dovere di correttezza e dovere di non divulgare informazioni denigratorie. Nel primo caso, l’interesse oggetto di tutela è quello della potenziale clientela; nel secondo caso, quello dei colleghi, e del decoro professionale. 

Specifico e peculiare alla professione di avvocato è il dovere di segretezza e riservatezza: che è qualcosa di diverso dal rispetto del segreto professionale, è l’ulteriore dovere deontologico di evitare ogni riferimento a vicende patrocinate e alle parti assistite. 

A questi principi va aggiunto il “Divieto di accaparramento di clientela” di cui all’art. 37 che comprende il divieto per l’avvocato di ogni attività diretta all’acquisizione di rapporti di clientela, a mezzo prestazioni di terzi, agenzie o procacciatori, nonché il divieto di offrire o corrispondere compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di un incarico, fino al divieto di offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata, cioè rivolta a una persona determinata per uno specifico affare. 
 

Cos’è che distingue principalmente l’attività dell’avvocato dalle regole moderne della pubblicità commerciale? 

Direi il divieto di informazioni comparative. Dopo la direttiva comunitaria 2006/114/CE, la Corte di Giustizia Europea ha chiarito che la pubblicità comparativa è corretta quando un’impresa promuove i propri beni o servizi mettendoli a confronto con quelli dei concorrenti in modo oggettivo; è illecita quando scredita i concorrenti, quando genera confusione tra prodotti concorrenti, in sostanza quando è fuorviante per il consumatore. 

Questo non vale per gli avvocati: non è ammesso nessun riferimento o confronto con l’attività dei colleghi. 

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