16 Marzo 2021

La Cassazione, il mobbing e il luogo di lavoro sostenibile

GIOVANNI SCUDIER

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Abstract

Le organizzazioni nelle quali il sistema di sicurezza sul lavoro disegnato dal legislatore trova applicazione piena e condivisione convinta, realizzano una dimensione aziendale di sostenibilità; in esse la Direzione Legale Sostenibile è già realtà.

Una recente sentenza della Suprema Corte in tema di mobbing dà straordinaria concretezza a queste affermazioni ed esprime in maniera plastica come e perché un luogo di lavoro che rispetta i principi della sicurezza e igiene del lavoro è un luogo di lavoro sostenibile.

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Con la sentenza n. 27913 depositata il 4 dicembre 2020, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione si è pronunciata su una fattispecie di mobbing con un approccio e una serie di affermazioni che vanno oltre la mera vicenda giuslavoristica e dicono parole illuminanti su cosa vuol dire sostenibilità del luogo di lavoro.

Il caso riguardava il verificarsi di atti e fatti  sistematici (“quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati”), accertati nel processo come effettivamente avvenuti e, soprattutto, ritenuti indicativi di una volontà di prevaricazione di alcuni dipendenti nei confronti di una collega di lavoro (“offensività dei termini utilizzati e delle accuse assolutamente infondate dirette alla lavoratrice”); la sentenza della Corte conferma dunque la sentenza di merito che aveva ritenuto integrata la fattispecie di mobbing sia nell’elemento oggettivo che in quello soggettivo.

E’ noto al riguardo che secondo la Suprema Corte il mobbing può definirsi in termini di “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare la dipendente nell’ambiente di lavoro”, in cui ricorrono l’elemento oggettivo della pluralità di comportamenti vessatori e l’elemento soggettivo dell’intendimento persecutorio (cfr. da ultimo Cass. Pen., sez. V, n. 31273/2020).

Ritenuto integrato il mobbing, ne deriva l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno che la lavoratrice aveva avanzato nei confronti del Fallimento della società datrice di lavoro per l’invalidità temporanea conseguente alle condotte illecite; ed è qui che la Suprema Corte coglie l’occasione per sottolineare con forza e con particolare enfasi la  dimensione fondamentale della persona nel luogo di lavoro, e per ricordare che la responsabilità datoriale poggia su norme prevenzionali che vanno interpretate in funzione della tutela della persona e del rispetto di essa, costituendo la sua dignità, sicurezza e salute “momenti tutti che costituiscono il centro di gravità del sistema ponendosi come valori apicali dell’ordinamento”.

Queste affermazioni risultano tanto più significative, nella prospettiva del luogo di lavoro sostenibile inteso come complessivo ambiente nel quale la persona del lavoratore opera, perché nel caso di specie le condotte lesive non erano state poste in essere dal datore di lavoro, anzi era pacifico che questi non fosse stato “il protagonista diretto delle condotte vessatorie”; però il processo aveva accertato che egli ne era al corrente, che aveva “udito le grida” e che era stato informato, e ciononostante non aveva reagito e non aveva adottato alcuna misura “a tutela dell’integrità morale” della lavoratrice.

La norma di riferimento per la Corte è, naturalmente, l’art. 2087 c.c., declinato in particolare  nell’obbligo di adottare le misure necessarie “anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti”.

Letta – come fa la Corte - nella prospettiva costituzionale degli artt. 32 e 41 secondo comma Cost., questa norma esprime quello che a pieno titolo possiamo qualificare come il luogo di lavoro sostenibile: un luogo in cui il debito di sicurezza del datore di lavoro ha per fine ultimo la  “realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità”.

L’obbligo dell’art. 2087 c.c. “non si esaurisce nell’adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico, ma attiene anche –e soprattutto- alla predisposizione di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio”.

La Suprema Corte, ulteriormente, ricorda che le norme costituzionali hanno consacrato “il definitivo ripudio dell’ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l’agire privato”, in considerazione del fatto che l’attività produttiva è subordinata alla utilità sociale “che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità”.

La conclusione è che “la concezione patrimonialistica dell’individuo deve necessariamente recedere di fronte alla diversa concezione che fa leva essenzialmente sullo svolgimento della persona, sul rispetto di essa, sulla sua dignità, sicurezza e salute – anche nel luogo nel quale si svolge propria attività lavorativa”.

E’ una pronuncia assai significativa nella prospettiva della sicurezza sul lavoro, sia di per sé considerata, sia come strumento e manifestazione di sostenibilità.

Sotto il primo profilo, la sentenza ci ricorda che il mobbing va ben oltre la dinamica frontale della relazione diretta tra individui e si configura invece a tutti gli effetti come fenomeno “aziendale”, con ciò determinando, anche solo in termini di conoscenza (e conoscibilità, a ben vedere) la necessità di misure prevenzionali nei confronti dello specifico rischio, che andranno governate con le consuete dinamiche del Decreto 81/08 visto però nella sua dimensione più squisitamente organizzativa e delle relazioni sociali.

In termini di sostenibilità, l’insegnamento di questa sentenza è che la tutela sancita dal nostro sistema di sicurezza e salute del lavoro investe la persona del lavoratore nella sua interezza, ivi compresa la “integrità morale” messa così a dura prova dalle caratteristiche e dalle vicende del mondo del lavoro contemporaneo; l’ulteriore insegnamento è che il luogo di lavoro è “sicuro” quando non è solo “a prova di infortunio”; deve essere anche, appunto, sostenibile.

Il principio, per cui la piena attuazione delle norme di sicurezza e igiene del lavoro già di per sé rende un luogo di lavoro sostenibile, attrattivo, un “best place”, non è dunque solo nella teoria: è già nelle sentenze dei Tribunali e delle Corti.

Un motivo in più, assai concreto, per coltivare con convinzione l’obiettivo della Direzione Legale Sostenibile. 

   

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