22 Novembre 2019

Note a margine dell’autonomia negoziale nelle locazioni commerciali

ROBERTO RAZZINI

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Abstract

In seno alle locazioni, il rapporto (di forza) tra proprietà immobiliare e attività d’impresa ha subito un cambiamento rilevante rispetto al periodo storico in cui fu emanata la legge che a tutt’oggi le regola. I vicoli all’epoca posti si scontrano dunque con una mutata realtà, e anche la giurisprudenza deve farne i conti.

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Locazione e proprietà

Le locazioni commerciali rivestono ancor’oggi un ruolo importante nel contesto immobiliare italiano, con una tendenza in crescita a causa della crisi che ha colpito soprattutto le compravendite. In questa materia, la normativa di riferimento è ancora la L. 392/1978, ossia la cosiddetta legge sull’equo canone, volta in principio a regolamentare tutte le tipologie di locazioni. Per ragioni legate al periodo storico di incubazione legislativa, essa aveva la chiara volontà di tutelare il conduttore contro gli abusi imposti o estorti del proprietario-locatore. E la giurisprudenza ha da sempre avallato tale intento. Ma i limiti all’autonomia contrattuale delle parti oggi mal si conciliano con il mutato e differente equilibrio tra proprietà immobiliare e attività commerciale.

La proprietà, per innumerevoli ragioni, sta perdendo la sua centralità (si pensi banalmente alla rilevanza del leasing anche immobiliare, oltre appunto alle locazioni, nonché a tutti i recenti fenomeni di affitto/locazione breve o brevissima dei più disparati beni), ma il Legislatore tarda a porre rimedio. Anche la Giurisprudenza, per quanto nei suoi più limitati spazi di manovra, non si avvede del cambiamento o non trova misure per aggiornarsi.

 

La nullità dei patti contrari alla legge

Sono forse due gli aspetti più problematici, entrambi discendenti dalla portata dell’art. 79 L. 392/1978 ed entrambi oggetto di recenti pronunciamenti da parte della Cassazione: l’importo variabile del canone di locazione e la rinuncia all’indennità d’avviamento.

La norma citata, come noto, prevede che “è nulla ogni pattuizione diretta a limitare la durata legale del contratto o ad attribuire al locatore un canone maggiore rispetto a quello previsto dagli articoli precedenti ovvero ad attribuirgli altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge”. Questa è una delle principali norme che manifestano il favor conductoris del Legislatore dell’epoca, volta ad impedire a quest’ultimo di accettare obtorto collo condizioni lesive dei propri diritti pur di assicurarsi il godimento dell’immobile.

La disposizione è stata nel recente passato oggetto di novella con il DL 133/2014, a mezzo del quale è stata prevista la possibilità di una sua deroga per i contratti con canone annuo superiore a €. 250.000,00. Solo per le cc.dd. grandi locazioni, dunque, è ora contemplabile una astratta parità di forza negoziale tra le parti. Il regime intertemporale di applicazione della novità legislativa, tuttavia, fa sì che per la maggior parte dei contratti oggi in esecuzione tale deroga non trovi applicazione.

 

I canoni a scaletta

In questo scenario, la Cassazione si è occupata di recente (Cass. 23986/2019) di una locazione che prevedeva un canone “a scaletta”, destinato quindi ad aumentare nel corso del tempo, e trovando in tal modo occasione per una articolata rielaborazione di un proprio remoto precedente. Si è infatti data una nuova rilettura del principio sostenuto da Cass. 6695/1987, per approvare una pattuizione del canone in misura differenziata e crescente nel tempo se congruamente sorretta da elementi oggettivi, non traducendosi questa in un elusione/violazione dell’art. 32 L. 392/1978 - quale unica norma deputata a neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria nel tempo. In questo modo si sono legittimate clausole contrattuali molto diffuse nella prassi, frutto di una autonoma negoziazione e volta a trovare una equilibro sinallagmatico non ancorato ai parametri eccessivamente rigidi previsti dalla legge.

 

La rinuncia all'indennità d’avviamento

Solo pochi giorni dopo è stata pubblicata un’altra sentenza da parte della medesima Sezione (Cass. 24221/2019), che affronta il più ostico problema della rinuncia preventiva all’indennità d’avviamento. I giudici di merito avevano ritenuto nulla la clausola che la prevedeva, anche e soprattutto per la sua genericità. La Corte, dal canto suo, si immola in un poderoso obiter dictum al solo fine di mostrare le criticità (ma forse anche le possibilità) della posizione minoritaria dei precedenti giurisprudenziali.

Il riconoscimento dell’indennità di avviamento e la sua irrinunciabilità sono altri aspetti ove il favor per il conduttore si apprezza immediatamente. Ma la pronuncia in commento si pregia di rivisitarne la portata, assumendo l’indennità quale “strumento di reintegrazione sinallagmatica”, e pertanto volto a ristabilire la posizione paritaria tra le parti a fronte della conclusione anticipata del rapporto, piuttosto che “vantaggio” indebito del locatore (rilevante ex art. 79 L. 392/1978).

I precedenti della Suprema Corte, tuttavia, sono graniticamente orientati nel senso di ritenere invalide clausole che ammettono, in vario modo, una rinuncia preventiva all’indennità, facendo però salvi accordi posteriori alla stipula del contratto (ad es. in sede transattiva alla cessazione del contratto). Come detto, vi è però una corrente minoritaria che, sebbene criticata dal questo pronunciamento per le motivazioni, lascerebbe spazi di interpretazione volti a consentire (e ritenere legittime) clausole di rinuncia preventiva.

Dunque, sia la giurisprudenza, tanto quella ad oggi minoritaria che quella recentissima, sia la dottrina più attenta auspicano un ripensamento dei limiti legislativi all’autonomia delle parti, pur con le difficoltà interpretative del caso. E la questione non è di poco conto, ove si consideri che, escludendo le grandi locazioni stipulate dopo il 2014, tutti gli altri contratti sessennali ancora oggi in corso sono ad essi soggetti.

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