03 Maggio 2023

Non è un paese per giovani: la selezione di un nuovo collaboratore vista da un HR

VERONICA GAFFURI

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Abstract

Selezionare un nuovo collaboratore, soprattutto se è un giovane neolaureato/a, per qualcuno è un po’ come andare in auto in una tangenziale affollata: scatena gli istinti peggiori. Ma bisogna avere fiducia, se ne può uscire persone migliori, sia da selezionatori che da selezionati (e pure da non selezionati, ma qui il gioco si fa duro). E si potrebbe anche trovare la persona giusta.

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L’interazione umana come opportunità

Sono parecchi i mestieri che hanno (molto) a che fare con le persone, o meglio, quelli “a contatto con il pubblico”, come si dice negli annunci di lavoro. Tutti (camerieri, fattorini, addetti alle vendite, front office, servizio clienti e infiniti altri) hanno in comune il fatto che avere un certo grado di indulgenza per le altrui debolezze, esigenze, piccole idiosincrasie, giornate storte con conseguenti domande stupide, contribuisce a farti vivere con più serenità, consapevoli che in fondo lo siamo stati anche noi, quel cliente fastidioso, almeno una volta. In alcuni casi poi, il rapporto consente un discreto livello di interazione e allora serve pure un minimo di trasporto, che ti faccia apprezzare quel momento di reciproca conoscenza che la vita ti ha messo davanti. Così come il bravo commerciante conosce il suo cliente e fa con piacere due chiacchiere, non solo per un mero tornaconto, ma perché gli interessa davvero, almeno un po’, ed è soddisfatto se trova l’articolo giusto proprio per lui, così il selezionatore dovrebbe – a mio parere – trovare la possibilità di conoscere qualcuno un’esperienza affascinante, a prescindere dall’esemplare umano che gli si palesa di fronte, in carne o video. Per carità, a volte può essere un momento memorabile per i motivi sbagliati, ma in fondo ne vale la pena, sempre.

 

La triste realtà dei colloqui sbagliati

Mettendo insieme esperienze personali (da candidata e da selezionatore), racconti, articoli e statistiche, ho però la convinzione che spesso, soprattutto nei confronti dei più giovani (che notoriamente in questo paese non hanno voglia di lavorare e vogliono tutto e subito e signora mia ai miei tempi la gioventù sì che era educata) prevalgano, in ordine sparso:

  • la voglia di far capire chi comanda, sia mai che alzino la cresta;
  • la convinzione che in fondo siano tutti uguali, basta che abbiano i titoli che servono;
  • la convinzione che conta solo quello che fai (quanto vendi, quante pratiche sbrighi, quanti ordini inserisci) e nulla il resto (come lo fai e magari pure perché vuoi farlo);
  • l’assenza totale di empatia (e pure un po’ di tenerezza).

Sull’ultimo punto aggiungo come corollario un’accusa generazionale: essendo mio malgrado arrivata nella fascia anagrafica in cui i giovani candidati hanno poco più dell’età dei miei figli, trovo sorprendente come a volte ci sia nel selezionatore mio coetaneo la pressoché totale mancanza di quello sguardo partecipato di chi rivede le proprie insicurezze, emozioni e speranze dei primi colloqui e che è l’anticamera del saper insegnare, nel senso più alto del termine.

Uno dei ricordi peggiori della mia vita professionale riguarda un colloquio (da candidata) in cui il selezionatore, peraltro responsabile dell’intero team HR di un’importante azienda, mi fece domande prettamente operative e inutili, visto che le risposte erano sul CV (“quindi si è laureata in…? lavora in … dal..?”) lanciandomi occhiate furtive da sopra gli occhiali con l’aria di chi cerca di beccarti in fallo (“ahhhh lo dicevo io che ha mentito!”). Sono fuggita, immagino con reciproca soddisfazione e con la convinzione ancora più solida che fare HR trovando le persone repellenti sia una pessima idea.

Mi è rimasta appiccicata la sgradevole sensazione di essere stata ridotta (e scartata in base) a poche righe di CV, senza possibilità di far conoscere alcunché della mia rimarchevole personalità. A conti fatti, l’esito negativo di un colloquio, esperienza che necessariamente capita a tutti, suonava come un’inappellabile sentenza, più che la constatazione di non essere, per mille motivi più che legittimi, la scelta più adatta in quello specifico caso.

 

Capire il valore delle persone

A che serve allora fare un colloquio (e un assessment e poi un altro colloquio…) se alla fine ci interessano solo i fatti e non le esperienze? Esattamente come nella mia infelice esperienza, un CV è più che sufficiente; se poi il malcapitato è sotto i 25, con tutta la buona volontà non è che potrà aver salvato il mondo, per cui una pagina ben scritta dovrebbe riassumere la vita e i successi del più vivace dei candidati. A quel punto non servono algoritmi e men che meno intelligenza, artificiale o da primate che sia, basta una tabellina excel con dei filtri.

A pensarci bene però, questa è una scelta di campo e pure di valori.

Se credete che vita professionale e personale debbano essere totalmente distinte, che le relazioni umane (sul lavoro) debbano limitarsi a una serie di doveri, compiti, orari e gerarchie con minime o nulle commistioni, che insomma alla fine è il mondo dell’ognuno per sé e Dio per tutti, allora qualsiasi tentativo di conoscere un poco chi abbiamo davanti è tempo perso. Forse il rischio di trovare la persona sbagliata è più alto, la possibilità che resti poco pure, ma in fondo l’investimento è stato relativamente basso, per cui il conto torna. Diciamo che si punta sulla quantità e, per la legge dei grandi numeri, qualche scelta azzeccata ci sarà pure.

Nel caso invece crediate che le persone sono importanti, tutte quelle con cui condividete un pezzo di vita, perché anche la professione non è soltanto una somma meccanica di competenze tecniche, allora probabilmente è più efficace cercare di capire (un poco) il frullato di umanità che potrebbe essere il vostro futuro collega. Insomma, il fascino che la variabilità umana esercita sugli HR più melensi non è l’unica valida ragione per cercare di conoscere le persone.

Interessarsi alla vita passata, non solo ai traguardi, professionali e personali, ma a come sono stati raggiunti, vi potrebbe dare qualche indizio su come si comporteranno in futuro: su cosa li motiva, come si relazionano, a cosa aspirano, su cosa si impegneranno, quali stimoli desiderano sul lavoro. Questo, mi pare ovvio, è rilevante per le vostre scelte.

E per prevenire l’obiezione che già mi pare di sentire: “ma non tutti i candidati, men che meno i ragazzi e le ragazze di oggi, sono adatti, non tutti certamente sono essere umani così affascinanti; anzi, diciamocela tutta, è abbastanza certo che ci siano anche gli esemplari pigri, astiosi, poco proattivi…” e via con le peggiori nefandezze, lancio il guanto di sfida.

Come potete sperare di accorgervene se non grattando un po’ della vernice del professionalmente corretto e guardando cosa guida le scelte e le esperienze personali? Personalmente un modo migliore ancora non l’ho trovato. Di certo non garantisce il successo nel 100% dei casi, ma, parafrasando una celebre frase, mi pare che questo sia il metodo peggiore, eccettuati tutti gli altri.

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