26 Aprile 2018

Pinocchio e la responsabilità personale

LUCIO BONGIOVANNI

Immagine dell'articolo: <span>Pinocchio e la responsabilità personale</span>

Abstract

Lo spazio risarcitorio si è notevolmente ampliato negli ultimi anni. Questo fenomeno è certamente positivo, perché è frutto di una maggiore considerazione delle posizioni "deboli". Tuttavia, è opportuno chiedersi se c'è anche qualcos'altro all'origine di questa mutata sensibilità dell'opinione pubblica e della giurisprudenza.

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Che ruolo ha oggi la responsabilità personale? Chiediamolo a Pinocchio.

L’episodio del Gatto e la Volpe ci farà comprendere com’è cambiata la percezione che abbiamo oggi della responsabilità personale rispetto al tempo dei nostri bisnonni.

Partiamo dalla fine, da quando cioè Pinocchio, truffato per la seconda volta, decide di rivolgersi a un giudice per avere Giustizia. E a questo punto succede una cosa che ci spiazza: il giudice sbatte in galera Pinocchio e si disinteressa del Gatto e della Volpe. Che Giustizia è mai questa?

Ma non è solo questo a sorprenderci, perché ci accorgiamo che Pinocchio non è vittima di un episodio di malagiustizia (come diremmo oggi). Il giudice non è un corrotto, non é un superficiale. Tutt’altro. Collodi dice espressamente che il giudice ascolta “con molta benignità”, che prende “vivissima parte al racconto” e che addirittura “si intenerisce e si commuove”. Ciononostante, sbatte Pinocchio in galera, dicendo: "quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliàtelo dunque e mettetelo subito in prigione". Questo è l’aspetto fondamentale di tutta la vicenda.

Attenzione: Collodi non parla di una decisione di condanna nei confronti di Pinocchio, che infatti non viene condannato ma, pur essendo riconosciuto vittima di una truffa, viene immediatamente gettato in prigione. Perché?

Questa sottigliezza giuridica di Collodi ci permette di inquadrare correttamente la vicenda.

L’episodio del Gatto e la Volpe disegna i contorni universali della truffa e Pinocchio è il modello del truffato di ogni tempo. Ecco perché l’attenzione del giudice è focalizzata su Pinocchio, perché il giudice sa che il meccanismo della truffa si fonda essenzialmente sul truffato, funziona solo se il truffato lo permette, è lui il motore della truffa, quindi è il soggetto sul quale si può lavorare in chiave rieducativa. Se si vogliono evitare altre truffe in futuro, occorre rieducare anzitutto il truffato.

Il truffatore, invece, è un soggetto molto meno interessante, perché è un personaggio quasi periferico. E poi è un soggetto banale, risponde sempre agli stessi canoni riconoscibili. Il truffatore, se davvero vuoi, puoi riconoscerlo. Ma il truffato non vuole riconoscerlo, questo è il punto.

Dicevamo, è il truffato l’elemento centrale del “gioco” e presenta aspetti interessanti: è ostinatamente determinato a farsi truffare e per questo ignora i numerosissimi indizi che manifestano la truffa; inoltre, il truffato è disposto ad offrire al truffatore molto più di quanto questi in origine sperasse di ottenere (non dimentichiamo che il Gatto e la Volpe inizialmente contattano Pinocchio per scroccargli una cena all’osteria. Solo questo).

E qui arriviamo all’elemento cruciale di tutta la faccenda: l’avidità.

E sì, perché Pinocchio - come tutti i truffati - è divorato dall’avidità. Dall’avidità e dall’eterna illusione di una scorciatoia, quella di una vita facile, senza sacrificio e senza merito. L’avidità gli fa perdere di vista i connotati della vicenda, Pinocchio pretende di credere ai propri desideri, qualunque cosa succeda attorno a lui.

Ecco perché il truffato è l’unico soggetto importante ed ecco perché il giudice si è focalizzato unicamente su Pinocchio. Fa tutto lui. La sua grande colpa è l’avidità e l’illusione di una vita facile, senza sacrificio e senza merito. Ed è per questo che il giudice lo sbatte in carcere: per rieducarlo e per salvarlo da sé stesso. Un giudice giusto esamina le cause profonde e non si ferma agli effetti di un fenomeno. Un giudice giusto, che si commuove, sa bene che il modo sano di intenerirsi passa attraverso la rieducazione del truffato, per rimuovere le cause ed evitare che il meccanismo criminoso si ripeta in futuro.

È chiaro, ovviamente, che una simile pronuncia può essere resa soltanto nell’ambito di una società che è disposta a esaminare le cause vere di un fenomeno e che non confonde la commozione con un sentimento vagamente buonista che assolve sempre e comunque il truffato, una società cioè che riconosce anche nel truffato una responsabilità personale da educare. La rieducazione è possibile solo se il truffato non viene trattato come un bambinone irresponsabile.

E invece, si registra oggi un’apertura degli spazi risarcitori che farebbe impallidire Collodi. La maniera con cui spesso i media descrivono i fatti di cronaca (si pensi alle vicende relative al pubblico risparmio) denuncia una pericolosa involuzione della sensibilità sociale per quel che concerne la responsabilità personale. Senza contare, poi, che assistiamo perplessi a pronunce che avallano quest'apertura.

Diversi Giudici di Pace campani, alcuni mesi fa, hanno condannato i Monopoli di Stato a rimborsare i giocatori non vincenti al “Gratta e vinci”, perché i tagliandi non riportavano avvertenze sui rischi connessi al gioco e non indicavano la probabilità di vincita della scommessa. Frattanto, dall'altra parte dell'Atlantico, un colosso della ristorazione si è visto condannare a un risarcimento milionario per non avere scritto sul bicchiere di cartone che la bevanda (caffè, nella fattispecie) poteva essere ustionante.

Con questo non si vuol certo dire che i truffatori non vadano puniti per bene. Si vuole solo dire che, se si smarrisce il senso di una sana responsabilità personale, parlare oggi di funzione rieducativa rischia di ridursi a un vuoto esercizio retorico.

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