25 Marzo 2020

Violazione delle misure anti COVID-19 e falsa autocertificazione: quali imputazioni in sede penale?

ANTONIO BONFIGLIOLI

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Abstract

                                  Aggiornato al 25.03.2020

Quali imputazioni possano ragionevolmente emergere, in caso di violazione delle misure anti-Covid19 e di falsa autocertificazione, è un interrogativo oggi emblematico, di fronte al crescente aumento delle diverse contestazioni di reato, effettuate dalle forze dell’ordine, per inosservanza delle disposizioni “di contenimento” dell’epidemia in atto.

Una plausibile risposta al quesito impone di definire i confini precisi della possibile rilevanza penale dei fatti, con particolare riferimento alle “falsità”, atteso che, nella prassi operativa di queste giornate difficili, si registrano attribuzioni di fattispecie, per così dire, “eccentriche” rispetto al reale nucleo di tipicità penale dei comportamenti concretamente accertati.

Questo contributo, senza voler configurare un punto di arrivo, intende fornire alcuni spunti di riflessione “a caldo”.

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L’autocertificazione quale prestazione “personale”, tra opportunità probatorie e asserita doverosità: quale rapporto con i falsi penalmente rilevanti?

Desta qualche perplessità la pervicace convinzione, manifestata espressamente dal Ministero dell’Interno, che la falsità in “autodichiarazione”, commessa dal cittadino in merito alle ragioni giustificative dell’allontanamento dalla propria abitazione in questo periodo di emergenza sanitaria, integri gli estremi del delitto contemplato dall’art. 495 c.p., punito con la reclusione da uno a sei anni.

L’universo delle “falsità” nel diritto penale italiano propone un approccio arduo quanto affascinante: nato come autentico microsistema, connotato da decine di paradigmi delittuosi scolpiti dal legislatore del 1930 nel Titolo VII del codice penale, segnato dal costante riferimento ad un bene giuridico vischioso, inafferrabile (la “fede pubblica”), esso è stato, per un verso, stoicamente difeso dalla giurisprudenza di legittimità, nonché, dall’altro, “falcidiato” da recenti interventi schizofrenici di riforma che ne hanno, in larga parte, mutato i connotati tipici (si pensi alla famigerata stagione dei “pacchetti-sicurezza”, inaugurata nel maggio 2008).

Quest’ultima circostanza può essere una plausibile ragione del disorientamento che sembra aver colpito il Ministero dell’Interno nell’attività di diffusione ufficiale di moduli per “autodichiarazione”, ai sensi degli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000, al fine di permettere all’interessato di assolvere all’onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento, sempre contrassegnati dal riferimento primario, in caso di mendacio, alla possibile violazione dell’art. 495 c.p.

Ora, nulla quaestio in ordine al ricorso all’autocertificazione (tramite compilazione di modulo prestampato) quale strumento giuridico idoneo a recepire le richiamate e note giustificazioni. Tuttavia, nel silenzio delle fonti primarie sul punto (ossia il d.l. n. 6/2020, conv., con modificazioni, in l. 13/2020), forti dubbi sorgono sulla asserita “doverosità” dell’adozione di tale strumento (di natura regolamentare) - laddove la forza pubblica “determini” i cittadini a redigere apposito modulo (prassi operativa in atto, senza eccezioni, a partire dai controlli alla stazione ferroviaria di Milano durante la inopinata fuga di massa al sud nella notte tra il 7 e l’8 marzo) – anche a volerla desumere quale tratto implicito degli artt. 46 e 47 d.P.R. 445/2000.

In effetti, il messaggio reperibile online sul sito del Ministero dell’interno indica in modo chiaro ai cittadini che, incombendo sui medesimi l’onere di provare le “tassative” esigenze esimenti l’obbligo di restarsene a casa, “dovrà essere compilata un’autodichiarazione” (autodichiarazione, in definitiva, prospettata quale “unica ratio”).

La stesura di un’autodichiarazione rientra negli stilemi tipici di una “prestazione personale”, come tale non esigibile al di fuori di un’espressa indicazione normativa di rango primario, come previsto puntualmente dall’art. 23 Cost., norma “manifesto” della riserva di legge. E, a ben vedere, non solo il d.l. n. 6 del 23 febbraio 2020 (che è atto avente forza di legge e, dunque, sarebbe legittimato a introdurre nuove “prestazioni personali”), ma nemmeno i successivi d.P.C.M. che hanno contribuito legittimamente alla sua attuazione, compiono alcun riferimento al tema.

 

Il momento consumativo della falsità e la discutibile contestazione del delitto previsto dall’art. 495 c.p.

La persona che si allontani dalla propria abitazione, senza rientrare in una delle richiamate situazioni esimenti, viola la fattispecie fondata sul combinato disposto degli artt. 3 e 4 d.l. 6/2020 (conv., con modificaz., in l. 13/2020) e 650 c.p. i quali, stante la norma di rinvio declinata nell’art. 2 del d.l. 6/2020, conferiscono rilevanza penale alle specifiche misure contenitive compendiate dai successivi d.P.C.M. dell’8 e 9 marzo 2020.

Una siffatta violazione, lungi dal potersi desumere in modo esclusivo o inderogabile dalla presentazione/compilazione dell’autodichiarazione redatta e sottoscritta dal cittadino soggetto a controllo (della quale nelle fattispecie citate non vi è traccia), si perfeziona propriamente all’atto dell’annotazione di P.G. da parte delle forze dell’ordine che hanno proceduto al controllo. Tale annotazione, peraltro, si configura indubbiamente come “atto pubblico”. D’altronde, l’autodichiarazione e il contenuto di essa rilevano ai fini dell’accertamento in merito alla concreta sussistenza di una delle situazioni “scriminanti” (in senso atecnico), scandite in un primo momento per le “zone rosse” dall’art. 1, comma 2, lett. a) DPCM 8 marzo 2020, ed estese in seguito all’intero territorio nazionale.

L’alveo di tipicità che contrassegna il delitto contemplato nell’art. 495 c.p. non è idoneo a ricomprendere la condotta di colui che renda dichiarazioni mendaci sulle circostanze afferenti la sussistenza di una di quelle situazioni che, sulla base della normativa cogente, consentono l’allontanamento temporaneo dalla propria abitazione.

Premesso che quelle false dichiarazioni non potrebbero ricomprendere la propria “identità” né lo “stato” (pur se inteso in senso ampio quale “posizione” ricoperta da un individuo in un qualunque ambiente sociale: cittadinanza, capacità di agire, parentela, ecc.), esse dovrebbero, par di capire, abbracciare le “qualità personali”.  

Un’interpretazione del genere, tuttavia, non è accettabile, perlomeno nella misura in cui da tempo dottrina e giurisprudenza hanno chiarito che nella nozione in esame rientrano gli attributi e i modi di essere che connotano l’individualità di un soggetto, ovvero contribuiscono ad identificarlo nella sua “unicità”, quali, ad esempio, la sua professione, la dignità, l’ufficio pubblico ricoperto, il grado accademico, l’eventuale precedente condanna, etc.

Si tratta, a ben vedere, di informazioni “funzionali” all’identificazione della persona, anche, eventualmente, laddove quella “qualità” sia necessaria per il compimento di un atto giuridico (es.: soggetto che, si dichiarò convivente per ottenere un colloquio con una detenuta, mentre era un semplice conoscente).

Breve: la “persona” e le sue “qualità” sono l’epicentro delle dichiarazioni mendaci potenzialmente rilevanti ex art. 495 c.p. e non, dunque, meri “fatti”.

 

Conclusione. Riconducibilità delle autocertificazioni mendaci al più mite delitto previsto dall’art. 483 c.p.

Un conto, dunque, sono le dichiarazioni menzognere che hanno per oggetto qualità e attributi della persona, altro sono le false attestazioni riguardanti le ragioni fattuali per cui un soggetto si allontana dalla propria dimora (esigenze lavorative, situazioni di necessità, motivi di salute, rientro alla propria abitazione). Condotte di quest’ultimo tenore, in effetti, ricadono proprio nel nucleo precettivo del delitto di cui all’art. 483 c.p., che, oltre a presentare un carico sanzionatorio più lieve (reclusione fino a due anni) rispetto a quello scolpito nell’art. 495 c.p., risulta essere la norma incriminatrice ad hoc per i casi descritti, laddove, come recentemente sancito dalla Corte di Cassazione, “l’atto pubblico [nel caso di specie, ad esempio, la relazione di servizio, ndr], nel quale la dichiarazione del privato è trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati e, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente”.

 

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