16 Maggio 2022

Il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato

RANIERI ROMANI

Immagine dell'articolo: <span>Il patto di non concorrenza nel rapporto di lavoro subordinato</span>

Abstract

Uno dei principali problemi che, specie in epoca recente, le aziende si trovano a dover affrontare è quello di trattenere i propri talenti (sui quali hanno investito tempo e risorse economiche) evitando che passino alla concorrenza, portando con sé il know-how acquisito negli anni. Il principale strumento messo a disposizione dal Legislatore per far fronte a tale scenario è il patto di non concorrenza, disciplinato dall’art. 2125 del Codice Civile.

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Nel corso del rapporto di lavoro ogni dipendente ha il divieto di svolgere attività in concorrenza con quelle del datore di lavoro. Ciò è espressamente previsto dall’art. 2105 del Codice Civile il quale, nel disciplinare il dovere di fedeltà del dipendente, dispone che  “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore”.

Una volta cessato il rapporto di lavoro, invece, il dipendente (salvo che abbia sottoscritto un valido patto di non concorrenza) può scegliere liberamente la propria attività lavorativa (sia essa in forma autonoma o subordinata) potendo, quindi, svolgere anche attività in concorrenza con il precedente datore di lavoro.

Il patto di non concorrenza - che costituisce un’estensione negoziale dell’obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c. - è finalizzato proprio a tutelare questo interesse aziendale: evitare che un proprio dipendente svolga attività in concorrenza successivamente alla cessazione del rapporto.

 

Requisiti di validità

La Legge richiede che, ai fini della sua validità, il patto rispetti i seguenti requisiti:

  • forma: deve necessariamente avere forma scritta e può essere contenuto sia nel contratto di lavoro (come spesso avviene) sia in un autonomo accordo separato (eventualmente sottoscritto anche alla cessazione del rapporto di lavoro);
  • oggetto: deve indicare in modo dettagliato le attività che il dipendente non può svolgere: può riguardare qualsiasi attività in concorrenza con l'attività del datore di lavoro e può anche non limitarsi alle mansioni svolte dal dipendente;
  • durata: deve essere indicata la durata dell’obbligo di non concorrenza che non potrà superare i 5 anni per i dirigenti e i 3 anni per le altre categorie di lavoratori (in caso di pattuizione di una durata maggiore, si avrà una riduzione automatica della durata al limite previsto dalla Legge);
  • territorio: deve specificare il luogo in cui vige l’obbligo di non concorrenza. La giurisprudenza più recente riconosce la validità di patti con un’estensione territoriale di più Paesi e continenti purché ciò non impedisca al dipendente di trovare un’altra occupazione utilizzando e sviluppando la propria professionalità e purché il patto sia adeguatamente compensato;
  • corrispettivo: deve essere equo e proporzionato in relazione all'oggetto, al territorio e alla durata del patto (più ampie sono le limitazioni, maggiore è il compenso), con la conseguente nullità dell’intero patto in caso di corrispettivo non proporzionato. In linea generale, sono da ritenersi congrui corrispettivi, per ogni anno di efficacia del patto, pari al: (i) 50/60% dell'ultima retribuzione annua, ove estesi a più Paesi; (ii) 30/40% dell'ultima retribuzione annua, ove estesi al territorio italiano; (iii) 15/25% dell'ultima retribuzione annua, ove estesi a più regioni. In ogni caso, il compenso va valutato caso per caso anche (e soprattutto) tenendo in considerazione le condizioni oggettive e soggettive della specifica situazione.

 

Clausole accessorie

In molti casi vengono inserite all’interno dei patti di non concorrenza clausole accessorie quali, ad esempio:

  • penale: le parti convengono che, in caso di inadempimento all’obbligo di non concorrenza, il dipendente debba pagare un importo a titolo di penale in favore del datore di lavoro (in aggiunta alla restituzione di quanto eventualmente già percepito a titolo di patto);
  • diritto di recesso: le parti convengono che, entro una certa data, il datore di lavoro può decidere di recedere unilateralmente dal patto: in caso di recesso, il dipendente non sarà tenuto al rispetto di obblighi di non concorrenza e il datore di lavoro non sarà tenuto a pagare alcun corrispettivo. Ai sensi della giurisprudenza più recente, però, tale clausola è considerata nulla (“La previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all'arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative, atteso che la limitazione allo scioglimento dell'attività lavorativa deve essere contenuta entro limiti determinati di oggetto, tempo e luogo, e va compensata da un maggior corrispettivo. Ne consegue che non può essere attribuito al datore di lavoro il potere unilaterale di incidere sulla durata temporale del vincolo o di caducare l'attribuzione patrimoniale pattuita”: Cass. civ. sez. lav., 1° settembre 2021, n. 23723). Pertanto, un recesso dal patto comunicato in forza di tale clausola (nulla) non avrà alcun effetto e le parti saranno comunque vincolate dalle obbligazioni in esso contenute;
  • diritto di opzione: il datore di lavoro si riserva il diritto di scegliere, entro un termine stabilito, se avvalersi o meno del patto di non concorrenza. In caso di esercizio del diritto di opzione il patto diverrà efficace. In caso contrario, entrambe le parti saranno libere dalle obbligazioni in esso contenute. La giurisprudenza più recente ritiene valida tale clausola (“l'opzione determina la nascita di un diritto a favore dell'opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusiva iniziativa dell'opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. E, dunque, scaduto tale termine, l'opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta”; Corte d’Appello Milano, 2 settembre 2019, n. 908).

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